CATANIA – Ergastolo e due anni di isolamento diurno. Non ha fatto certo sconti il pm Pasquale Pacifico ieri nelle richieste di condanna per Vincenzo Santapaola, Giuseppe Madonia, Maurizio Zuccaro e Benedetto Cocimano accusati di essere mandanti e killer dell’omicidio di Luigi Ilardo, ammazzato il 10 maggio del 1996 in via Quintino Sella a Catania. Parla per oltre 7 ore il sostituto procuratore, la requisitoria scandaglia l’inchiesta che ha portato a risolvere uno “dei misteri d’Italia”. Così definisce l’omicidio di Gino Ilardo, cugino di Giuseppe Madonia (capo della famiglia di Caltanissetta). Il magistrato cesella i contorni degli assetti di Cosa nostra tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996. Una cupola con due anime, da un lato la strategia stragista di Riina con Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca e dall’altra Bernardo Provenzano, più riflessivo. “Di questa seconda frangia facevano parte Giuseppe Madonia e Gino Ilardo”. La “spaccatura” aveva i suoi riflessi anche a Catania con chi aveva interlocutore Giovanni Brusca, cioè Natale Di Raimondo (oggi collaboratore di giustizia) e Aurelio Quattroluni e dall’altra Vincenzo Santapaola, Maurizio Zuccaro e il suo manipolo di fedelissimi.
Il magistrato traccia il profilo della vittima, definendolo “l’uomo che il 31 ottobre del 1995 ha portato lo Stato a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano”. “Non spetta a questo processo capire perché lo Stato non lo ha eseguito la cattura – afferma Pacifico – ma che quell’incontro tra Provenzano e Ilardo a Mezzojuso a Palermo sia realmente avvenuto non sono io a dirlo ma è scritto nella sentenza del processo Mori, i giudici parlano di un scelta strategica (magari sbagliata) da parte del Ros”. E su questo aspetto il pm, non da magistrato ma da cittadino, fa un collegamento sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina sempre da parte del Ros e manifesta alcune perplessità (“mi assumo le responsabilità di ciò che dico” – afferma) su chi in quegli anni ha ricoperto i posti di vertice dell’organo investigativo più importante d’Italia. E Pacifico ricorda che tutti i componenti di “quella linea direttiva poi è transitata nei servizi”.
Luigi Ilardo si definisce “il vice rappresentante della famiglia di Caltanissetta”. E’ la sua stessa voce a raccontarlo, in quelle registrazioni di Michele Riccio, che prima come esponente della Dia e poi come colonnello dei Ros, ha gestito la “collaborazione” del cugino di Pippo Madonia. Usa il termine “collaborazione” non a caso Pasquale Pacifico nella sua requisitoria perché Gino Ilardo non era un semplice confidente della polizia giudiziaria, ma si muoveva come un vero e proprio infiltrato all’interno di Cosa nostra. Grazie alle sue rivelazioni sono stati catturati importanti latitanti, a Catania fu arrestato Vincenzo Aiello ad esempio. Ma questi risultati si possono incastonare solo nei mesi in cui Riccio è alla Dia, perché poi quando si trasferisce al Ros tutto sembra rallentare. Sono i mesi dell’incontro a Mezzojuso, è lo stesso capitano Damiano (all’epoca al Ros di Caltanissetta) ad ammettere che c’è stato un servizio di osservazione in quella zona. Su cosa? Il militare non sarebbe stato informato sull’oggetto da “osservare”. Un aspetto che non ha convinto però il magistrato.
All’inizio del 1996 correvano voci sul conto di Gino Ilardo: arrivano lettere anonime su un suo coinvolgimento nell’omicidio di Serafino Famà. E di riflesso sul delitto di Concetta Minniti, la moglie di Nitto Santapoala. Il cugino di Pippo Madonia è stato accusato anche di essersi intascato la tangente delle Acciaierie Megara. Nella ricostruzione dell’accusa è tutto frutto un piano per creare una motivazione (falsa) all’omicidio. Sarebbe stato forse imbarazzante dire che il cugino del capo della famiglia di Caltanissetta era un confidente. Quando Giovanni Brusca capisce che c’è una taglia sulla testa di Ilardo “informa Provenzano come atto di rispetto”. Ma quando arriva il pizzino dal padrino era già troppo tardi, perché Gino Ilardo era stato già ucciso. Il pentito Giovanni Brusca arriva alla conclusione che ci fosse “stato uno spiffero”. Una “fuga di notizie” che avrebbe provocato un’accelerazione all’esecuzione del delitto. Fretta è un termine che Pacifico usa spesso nella requisitoria, perché Ilardo è stato ucciso poco dopo aver espresso la sua volontà a diventare collaboratore e poco prima la formalizzazione per entrare nel programma.
Il 2 maggio 1996 a Roma vi è stato un incontro tra i vertici della Procura di Caltanissetta e Palermo e Gino Ilardo, ma di quella riunione non si ha alcun documento (“surreale” – commenta il pm). E’ Michele Riccio che racconta i dettagli di quel “rendez-vous” capitolino tra l’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e la pm Ida Principato. Il colonnello racconta che Ilardo non si fidava della magistratura di Caltanissetta, e alcuni pentiti palermitani “affermano chiaramente che Madonia poteva vantare dei contatti giudiziari nisseni”. E’ un pentito catanese però a far capire che ad certo punto “c’è stata una corsa” per l’uccisione di Gino Ilardo. Santo La Causa che aveva partecipato anche ai sopralluoghi in via Quintino Sella per organizzare l’omicidio, ad un certo punto viene “bypassato”. La Causa racconta che è stato “Cocimano ad informarlo che tutto era fatto”. Il tassello che incastra ogni pezzetto del puzzle è Eugenio Sturiale, che quella sera rientrando a casa vede il gruppo di fuoco di Maurizio Zuccaro. E qualche giorno prima aveva visto La Causa nei pressi della sua abitazione. Rivelazioni che Eugenio Sturiale aveva confidato già nel 2001 a Mario Ravidà della Dia. Ma quella nota di servizio non avrebbe mai prodotto un’indagine. Il perché resta un mistero. Uno dei tanti che ruotano attorno all’omicidio dell’infiltrato Oriente.