Comprendiamo lo stato d’animo di Totò Cuffaro: dall’altare alla polvere. Uno schianto. Un fulmine. Un colpo da non riaversi più. Pur non cedendo di un millimetro nella condanna di un colpevole, abbiamo apprezzato la sobrietà di un personaggio pubblico che va in carcere, lasciandosi cadere dalle spalle il mantello di una vita che non tornerà più, con rispetto. Non deve essere stata facile l’ultima telefonata in famiglia. Sono sentimenti e situazioni che non lasciano indifferenti la sensibilità, sia che riguardino un ex presidente della Regione, sia che scorrano sulla pelle dell’ultimo dei disgraziati.
Cuffaro ha rilasciato un’intervista a “Panorama” per raccontare la sua amarezza. Uno sfogo comprensibile – ripetiamo – specie se al cospetto di un’alta attenzione mediatica. Eppure una mossa sbagliata. Al luogo in cui si trova colui che tutti chiamarono Totò, si addicono meglio il silenzio e la misura. Sono compagni più degni dell’inevitabile espiazione.
Il carcere – anche “comodo” – è un terribile pozzo senza fondo. Le rende tale l’estensione dei passi fino al muro di cinta. Non si va oltre. Lasciarsi cadere dalle spalle il mantello del passato significa seppellire le polemiche, perfino se si ritiene di avere ragione. Le parole pronunciate dalle sbarre per attaccare qualcosa o qualcuno hanno il suono della voce rancorosa di un perdente. Totò Cuffaro vuole questo? Forse sarebbe più sano, nello spazio di pena, costruire qualcosa di diverso con mattoni e fatica. Così, quando le porte si apriranno la libertà non troverà un numero. Abbraccerà un uomo.