Non entrerò nel merito della diatriba, ognuno risponderà in coscienza al quesito del referendum confermativo della legge costituzionale che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione indetto per i giorni 20 e 21 settembre. Deciderà chi si recherà alle urne, niente quorum. Perché stavolta non mi esprimerò? Sembrerà provocatorio eppure a mio parere il punto vero su cui riflettere sta al di fuori dell’oggetto referendario, al di là del SÌ o del NO alla riduzione dei parlamentari. Una premessa. Da alcuni anni in Italia le riforme della Costituzione e le modifiche delle leggi elettorali, che dovrebbero essere concepite “cum grano salis” e con il massimo coinvolgimento di tutte le forze politiche – perché riguardano le prime i principi fondamentali e il funzionamento della Repubblica, le seconde le comuni regole del gioco – sono invece diventate non solo motivo di aspre contrapposizioni ma addirittura armi dello scontro politico.
Così non va e grossi sono i rischi che possono derivare da tali sciagurate pratiche, ce lo insegnano i regimi dittatoriali o falsamente democratici in cui costituzioni e leggi elettorali mutano velocemente sulla base delle esigenze del despota di turno. In realtà, senza scomodare situazioni estreme, seppure concrete, il rischio da noi è quello di violare delicati equilibri, sapientemente creati dai Padri costituenti, a causa di dinamiche contingenti e legate alle lotte dentro il Palazzo del potere. In questa tornata referendaria, per esempio, a proposito di contingenze politiche, una vittoria dei NO potrebbe mettere in pericolo il governo Conte – ipotesi già di per sé condizionante il voto referendario – mentre è singolare che una riduzione dei parlamentari, auspicata da decenni, e approvata con numeri quasi totalitari alla Camera, improvvisamente e ambiguamente sia ora ragione di divisione anche all’interno degli stessi partiti, di maggioranza e di opposizione.
Eppure, si parla tanto di “rispetto” verso l’espressione più alta della sovranità popolare, il Parlamento. Tutto ciò è anomalo e segno di una latente malattia che mina la democrazia e l’ordinamento giuridico. Il punto vero su cui fissare l’attenzione, allora, per tornare alle battute iniziali, non è la “quantità” della rappresentanza popolare. Se vincerà il SÌ – 400 deputati dai 630 attuali e 200 senatori dai 315 attuali – non ci sarà alcun cataclisma e, d’altro canto, nessuna tempesta si abbatterà su di noi se vincerà il NO mantenendo lo status quo. Al contempo, la qualità della classe politica non è mai assicurata da norme costituzionali o da asettici meccanismi elettorali.
Conta la maturità degli elettori e conta la modalità con cui i rappresentanti del popolo vengono eletti, una modalità che può APPARIRE democratica, ma in realtà consacra lo strapotere delle segreterie di partito, o ESSERE davvero democratica, restituendo al cittadino la libertà di scelta. Le liste bloccate esordirono al grido: “le preferenze nascondono corruzione e voto di scambio”, un errore di impostazione culturale. Ogni valore, come la libertà, ha in sé la potenza di autodistruggersi attraverso le sue perverse applicazioni ad opera degli uomini, non per questo la libertà cessa di costituire l’apice valoriale di una persona e di una comunità civile. Certo, pure con le preferenze alla fine sono sempre le segreterie a decidere la composizione delle liste (l’alternativa sarebbero le primarie) però almeno si elimina una stortura: il potere delle nomenclature di stabilire chi della lista deve farcela, di solito gli amici, e chi no.
Purtroppo, il testo della nuova legge elettorale – chiamata Germanicum, dal sistema tedesco da cui attinge, o Brescellum, dal nome del suo autore, il deputato grillino Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio – così com’è, vedremo poi il dibattito nelle aule, non cammina in direzione del ripristino delle preferenze (pare che il M5S ci stia ripensando). Inoltre, magari sarà giudicato démodé, credo che la Camera dei Deputati, se vogliamo che sia l’autentico specchio del Paese, vada eletta col proporzionale con una soglia di sbarramento non troppo bassa ma nemmeno troppo alta (il 3%). Il cosiddetto “diritto di tribuna” concesso alle minoranze non deve ridursi a una manciata di seggi. Del resto, è fatica sprecata tentare di trasformare, in nome della governabilità, l’italiano, litigioso almeno fin dai tempi di Dante, in un inglese improvvisamente disponibile all’esistenza sostanzialmente di due partiti o snelli schieramenti. Urge, piuttosto, una severa rivisitazione dei rapporti tra Stato e Regioni, in atto confusi e pasticciati – addentrarsi nelle numerose problematiche giuridiche tuttora aperte è altamente stressante anche per chi ne capisce qualcosa -, lo abbiamo constatato in tempo di emergenza sanitaria da Covid-19. Quella riforma del Titolo V della Costituzione, una sorta di disordinato argine alle pretese secessioniste della Lega, fu un altro funesto episodio dell’uso politico della nostra Costituzione.