PALERMO- Roberta Siragusa è diventata una foto, qualcosa che non si può più abbracciare. Questa è la pena che scaturisce dalla violenza che l’ha travolta, a Caccamo. Non sarà più incontrata, né abbracciata, né baciata: attività, oggi, semiclandestine ma che torneranno di moda. Roberta non avrà più un corpo, non potrà più decidere come e a chi sorridere. Rimarrà prigioniera di un’immagine che non crescerà. Non troverà il lavoro che avrebbe sognato, di cui aveva parlato a don Domenico Bartolone, il suo insegnante di religione, non deciderà di condividere la sua vita con qualcuno, la stessa vita che a qualcuno che non lo saprà mai è stata già rubata per sempre. Nessuno nascerà da lei, la sua scomparsa ha interrotto la catena delle nascite che, magari, in piena libertà e per amore, sarebbero arrivate. Non è una singola tragedia, ma una catastrofe che attraversa il tempo e gli spazi. Un macigno lanciato dentro un lago, destinato a riprodurre cerchi concentrici all’infinito.
E allora guardiamola questa foto, anzi, queste foto che punteggiano la cronaca di un’assenza. Sappiamo che il modo di fotografare non è più lo stesso di quarant’anni fa, quando c’erano i rullini e le immagini che si nascondevano nei cassetti e odoravano già di passato, lo stesso familiare sentore di buona muffa che il naso riscontrava, aprendoli, a distanza di anni, quei cassetti. Furono le Polaroid, per esempio, a darci la cronaca diretta di come eravamo buffi nel riflesso e c’erano sempre risate intorno. Tutto il resto, nel perimetro degli affetti, era pensato per la memoria breve o lunga, non per la cronaca. Infatti, Leonardo Sciascia, che non conobbe i selfie, scriveva: “Per abolirlo, o per fermarlo, per abolirlo, fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo”. Perché, ritraendolo e fissandolo, lo rendeva eterno, dell’eternità degli sguardi che un giorno si sarebbero fatti da parte, per lasciare il posto ad altri occhi.
Le foto di Roberta, da consumare subito, da condividere sui social, da sminuzzare, immediatamente, nelle chiacchiere liete tra amici, adesso, per lei, hanno lo stesso significato delle foto di una volta nei cassetti. Serviranno alla memoria, alla tenerezza postuma, celebrando, nello stesso istante in cui verranno accarezzate da dita in cerca di un contatto, il loro ‘mai più’. Nel libro non seguiranno nuove immagini.
Questo mai più è la sentenza estrema di una violenza che ha sorpreso tanti, come, appunto, il parroco di Caccamo, don Domenico Bartolone, che, con l’innocenza dell’uomo percorso da un flagello inaspettato, ha detto, riferendosi anche a Pietro Morreale, accusato dell’omicidio: “Li conoscevo, ero docente di entrambi. Ma li conoscevo pure perché la loro comitiva si riuniva davanti alla chiesa, quando aprivo e chiudevo erano sempre lì. Mi sono spesso soffermato a parlare con quei ragazzi, adolescenti normali e niente lasciava presagire una tragedia”. Come è possibile che da una decalcomania dell’adolescenza spensierata sia venuta fuori la storia che abbiamo scritto e letto? Forse perché l’adolescenza non è mai spensierata come si crede. Da qui lo smarrimento autentico degli adulti che, di solito, sono gli ultimi a sapere cos’è che passa nel cuore dei giovani.
Roberta Siragusa non si sveglierà per andare a scuola, non saluterà, non correrà per prendere l’autobus, non berrà un caffè, non sfiorerà nessuna delle cose normali che compongono un’esistenza, che ci sembravano scontate, prima che scoprissimo quanto sono essenziali. Sarà uguale alla sua ultima foto sul giornale, nella descrizione di un dolore, eterna, ma immutabile. Questa è la pena che non conoscerà oblio.