(rp) Una volta a Palermo, i barboni non morivano da soli. Vicè delle Poste era brutto, sporco, e moralmente ingiustificabile (come direbbe il Papa): cioè, omosessuale. Dormiva in un angolo accanto alle Poste di via Roma. Si acconciava i capelli luridi in una interminabile coda di lordume. Vicè non sapeva di essere “frocio” – come lo chiamavano -, lui si credeva una bella donna. Il missionario laico Biagio Conte se ne prese cura. Mise i suoi volontari di guardia accanto al letto improvvisato di Vicè. I carabinieri di pattuglia portavano ogni tanto qualcosa da mangiare. I ragazzini che sfottevano “il frocio”, negli ultimi giorni, lo guardavano con affetto.
Vicè morì di bronchite. Si capì che stava malissimo perché chiese un’ambulanza, lui che fuggiva alla sola vista di un camice bianco. Ebbe appena il tempo di posare il capo sulla lettiga. Fece un sospiro lunghissimo e, a braccia in croce, spirò. C’erano trenta persona a piangere e a vegliarlo.
Oggi “Repubblica” racconta la storia del barbone della Zisa morto di freddo. Si sa che era polacco e che si faceva chiamare Giovanni. Un altro è morto in solitudine, carbonizzato, a Mondello. I barboni di Palermo muoiono come ieri, ma muoiono due volte. Oggi nessuno li piange, in fondo è normale. E nessuno – con rispetto parlando – si incazza più.