Solo per i tuoi occhi - Live Sicilia

Solo per i tuoi occhi

Norman Zarcone, ultima puntata
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6 min di lettura

Ora posso confessartelo, Norman. Ho scritto solo per i tuoi occhi, per quello che mi bisbigliano e che non riesco a svelare. Per i tuoi occhi, ho affrontato il viaggio. Ho scavato nella tua storia perché tuo padre, un uomo buono,  mi è venuto incontro sul sagrato della facoltà di Lettere, in un tremendo giorno di settembre. Mi ha abbracciato e mi ha bagnato la guancia di lacrime. Non sono andate più via.

Che fantastici bugiardi, noi giornalisti. Sfoggiamo equanimità e rispetto, mentre giochiamo con le vite degli altri. E sappiamo che le vicende e le persone sul cammino non sono mai tutte uguali. Certi incontri sono appena polvere sulla giacca. Spazzi via lineamenti e volti. Dimentichi. Il cinismo protegge la pelle dentro, perché si può morire dietro la coda di ogni tramonto. Altri occhi non riesci a scansarli. Te li porti nel cuore, prima con il fastidio di un enigma, poi con una ardente curiosità. E se scrivi qualcosa per quello sguardo e per quella verità, da cialtrone diventi giornalista. Giornalista vero, con la pazienza dell’amore per la sincerità, per la lealtà. Senza i trucchi talmente necessari per stare a galla nella tinozza di uno sporco e meraviglioso mestiere.

Ho terminato il mio viaggio, la circumnavigazione. E’ il momento delle confessioni. Oggi non scriverei più: “Chi scrive è contrario all’intitolazione di un’aula universitaria alla memoria di Norman Zarcone”. Non ho cambiato idea sul suicidio che considero sempre uno sbaglio, un peccato al cospetto dell’uomo e forse di Dio. La mia posizione non muta: ho visto morire troppa gente che voleva vivere, così non comprendo quelli che scelgono di morire, potendo vivere. Tuttavia, la storia di Norman è più complicata. Contano soprattutto il prima e il dopo. Ho intitolato il cammino da cronista: “Inchiesta sulla vita di Norman Zarcone”. Nella sua trama inestricabile davvero non si capisce – se non fisicamente – il confine tra respiro e schianto. Norman rideva, Norman cantava, Norman amava, Norman si è ucciso. Per me – che l’ho conosciuto solo in fotografia – Norman è vivo, in una sua forma peculiare. Nei giorni della mia ricerca non l’ho mai sentito lontano o perduto. Non l’ho mai sentito “morto”.

Le confessioni. Già. Devo ammettere una circostanza che ai lettori parrà un fallimento (a me no): non ho trovato l’assassino, né l’arma del delitto. C’è un’ipotesi verosimile sulla fine di Norman. Basta, per ora.  E’ che non mi interessava cercare il colpevole presunto, non ho gli strumenti adatti a un compito che richiede certezze assolute e non perdona approssimazioni. Cedo l’incombenza ad altri, meglio attrezzati di me. Volevo catturare un odore e spargerlo sulla pagina, come l’incenso che profuma a Natale la grotta del Bambinello.

Sapete come fanno i gatti? Io lo so. Quando qualcuno va via, nella casa degli uomini che frequentano, si accoccolano su un indumento. Se ne stanno con l’odore di colui o colei che hanno circondato di carezze e graffi, restano con i vestiti, se non riescono più a relazionarsi con un corpo, difendono l’essenza olfattiva dell’anima. I gatti hanno compreso perfettamente il valore della fatica della cronaca e della memoria….

Però il mio compito era anche fornire un metro di giudizio, senza darlo in prima persona. Ho tentato di riportare le voci, lasciando da parte quel grano di faziosità che sempre c’è ed è la nostra virtù e la nostra dannazione. Non mi resta che dare spazio all’interprete più autentico del suo destino, alla voce di Norman Zarcone. Ho conservato gelosamente una mail di Claudio con alcune cose scritte da Norman e dal padre commentate e punteggiate. Scrive Claudio Zarcone: “Altra pagina del diario pre-mortem : ‘Oh compare e Fulvietta, (due amici, Alessandro, laureato in Filosofia e Fulvia, un’amica) la natura del mondo è il divenire, rinascere come essere e come nulla. Vi ricordate? Al massimo ho fatto una minchiata, ahahch… (un modo di scherzare, di esclamare di Norman). Ma quante ne abbiamo combinate? Ricordatemi come il solito folle burlone. Il cane di Zenone è molto più veloce di me. Vi voglio bene, Normanone’”. Claudio si interroga: “Mi sono scervellato su questa sua ultima definizione sul cane di Zenone. Anche altri laureati in filosofia si sono confusi, compreso il suo professore di liceo, che ancora oggi, quando fa lezione (ma lo faceva già prima che Norman morisse), porta mio figlio come esempio per lo studio della filosofia. Sono andato a ripescare il vecchio manuale universitario di Nicola Abbagnano e mi sono ricordato dell’etica stoica, che comprende il suicidio. Molti stoici scelsero la morte per mano propria, lo stesso Seneca, che scrisse (ripreso da Oswald Spengler): ‘Ducunt fata volentem, nolentem trahunt’. In sintesi, il destino guida chi lo accetta, e trascina chi vi si oppone (ora la domanda che mi accompagnerà per tutta la vita è: mio figlio Norman ha assecondato il destino o vi si è opposto e ne è stato trascinato?). Quindi il discorso si sposta, a mio modesto avviso, nell’era della Stoà, a Zenone di Cizio, non a Zenone di Elea, e al paradosso della tartaruga e di piè veloce Achille, di qualche secolo prima”.

“Cercando e ricercando – continua il padre – ho trovato questa allegoria famosa degli stoici che paragona la relazione uomo-Universo a quella di un cane legato ad un carro. Il cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia del carro o resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi i casi; ma se ci si adegua all’andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario, si oppone resistenza, la nostra andatura sarà tortuosa, poiché saremo trascinati dal carro contro la nostra volontà. Non so perché, penso che mio figlio si riferisse alla morale stoica e non ad altro, salvo che non abbia inteso qualcosa di altro ancora, il cui segreto ha portato nella tomba”.

Ancora una nota di Claudio con un passaggio di Norman, vergato nel suo diario: “Amici, endeheheheh, in questi momenti penso ad ognuno di voi e a tutte le cose fatte insieme. Quanto cavolo sono? Impossibile ricordarle tutte. Mi dispiace, ma con fredda lucidità vi devo dire che ho capito tutto, poco, o niente. Ma devo sapere cosa ho capito. E’ nella mia natura la ricerca. Mi attende una nuova scoperta, anche se non potrò commentarla. Avrei voluto trasmettervi il mio essere in un altro modo:con le mie creazioni, le mie aspirazioni, i miei dubbi, con quello che potevo fare con tutto me stesso. Avevo grandi idee ma con il mio più… (parola incomprensibile nella scrittura a mano) vi dico: vi voglio bene”.

Il 13 settembre scorso Norman Zarcone si è lanciato nel vuoto dal settimo piano della facoltà di Lettere di Palermo. Prima del suicidio una telefonata al suo amore: “Ricordati che ti ho amato”. I suoi capelli in crespa e perenne rivolta rappresentano il simbolo di una generazione valorosa e dispersa. E poi ci sono gli occhi di Norman. Gli occhi. Segreto, chiave e scrigno dell’odore dei suoi sogni.

(3-Fine)


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