PALERMO – “Il fatto non sussiste”. La formula dell’assoluzione spazza via l’incubo giudiziario in cui è si è ritrovato un poliziotto imputato per stalking e maltrattamenti in famiglia. A denunciarlo era stata la compagna e madre dei suoi figli. Una serie di elementi hanno fatto cadere l’accusa davanti al giudice Bruno Fasciana. A cominciare dai tabulati telefonici dai quali emergeva che sarebbe stato l’uomo la vera vittima delle persecuzioni della compagna. Il poliziotto in cinque mesi aveva ricevuto dalla donna, che probabilmente aveva vissuto male il declino della storia, più di mille e 500 chiamate sul cellulare.
La vicenda esplode in tutta la sua drammaticità nel maggio 2013, quando la compagna denuncia l’ultimo presunto fatto increscioso. Il poliziotto,, durante una delle tante liti, aveva minacciato di bruciarle la macchina. Ed in effetti l’auto andò a fuoco, solo che i pompieri conclusero la perizia parlando di causa accidentale. E poi, ha sostenuto il legale della difesa, l’avvocato Enrico Tignini, che interesse avrebbe avuto il poliziotto a bruciare una macchina di cui lui stesso pagava le rate?
Il giudice prima e il Riesame poi, confermarono, però, l’impianto accusatorio e per il poliziotto scattò la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla donna. Fu pure costretto a consegnare la pistola d’ordinanza e a subire un demensionamento. Niente arma e niente più ruolo operativo. Un dramma professionale per una come lui abituato a stare in prima linea in un commissariato tra i più difficili della città.
E si arriva al processo dove viene fuori la storia delle telefonate ricevute dall’assistente di polizia e altri particolari a suo favore. Ad esempio non c’era alcun referto medico che certificasse i maltrattamenti subiti dalla compagna. Neppure i parenti, con i quali la donna aveva un rapporti di grande complicità, hanno detto di essere a conoscenza dei maltrattamenti. Le liti, quelle sì, ma mai oltre gli accesi scambi verbali.
Al termine della requisitoria il pubblico ministero aveva chiesto la condanna dell’imputato a due anni e due mesi di carcere. Ed invece il giudice ha deciso per l’assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste.