Anche il francese nella bocca di Sarkozy può diventare ghigno e intendersi con l’altro dialetto italiano del razzismo e della caccia: quello padano-sporco che va da Maroni a Paolo Frigerio, sindaco che nel 2000 a Cernusco sul Naviglio aveva pagato cinque milioni di lire per far spargere liquami in un campo rom. “Saremo più duri di Sarkozy”, il che significa essere meno duri di quanto già si è con gli immigrati che vengono riportati nelle mani dell’orco Gheddafi. Ma essere duri con i rom è la spocchia del vincitore, è la carezza del politico all’italiano che crede di curarsi dalla paura con il bastone, e vorebbe cacciare le pioggie e lo scirocco come gli zingari, che difatto sono uomini che esistono come le nubi e come le rondini si spostano ad ogni stagione. Ed è bene precisare che i rom sono una sottofamiglia di quel grande ceppo chiamato zingari, che sono i Marco Polo della storia, quelli che dalla Cina e dalle Indie hanno risalito la muraglia per portare nella vecchia Europa i violini zigani e la loro trasandataggine che usata dai figli dell’Occidente è invece moda. Anche il rimpatrio che il governo francese incentiva con un assegno di 300 euro e un altro piccolo contributo per i figli, sembra più l’assegno a chi non conosce le monete, visto che la storia degli zingari ha creato una moneta unica ed un continente prima dell’Europa. I rom sono una riserva sempre disponibile di odio prepagato, il giacimento contro cui addossare il furto, salvo mai prendersela contro le banche, le bolle, gli speculatori, che se avessero vestiti sarebbero i più eleganti zingari del paese. E’ come qualsiasi scarto, sono l’orlo della bottiglia, la periferia della periferia.
Dal ghetto della Favorita di Palermo, a quello di S. Ranieri a Messina, o quello ancora del Boschetto Plaja – Zia Lisa di Catania, i campi rom in realtà sono lo sfiatatoio delle periferie, lo stagno dentro al buio e forse sono ancora i più poetici per chi cerca il realismo di Pasolini, per gli architetti che riqualificano gli spazi prima di riqualificare il sentimento. E’ li che si radunano ruffiani, artisti, lucciole e viaggiatori, nel caso di Catania a pochi metri dall’aeroporto, a pochi metri dal centro commerciale come dire dalla famiglia al mondo. E bisognerebbe proprio partire da Catania, per dimostrare come le bugie andrebbero perseguite più dei reati, perché sono genocidi alla ragione, mandati di odio contro un’etnia che solo Maria Teresa d’Austria aveva cercato di riconoscere. Pochi metri dal mare tra le baracche con le stufe sempre pronte a proteggere dal freddo ma mai dall’incidente. Viorica Zavache e Sebastian Necolau, nel 2008 vengono accusati con la solita etichetta “ladri di bambini”; come gli ebrei di deicidio. Non gli occhielli della stampa, bensì il processo sommario i titoli che sono lettere che apostrofano più di una condanna; d’altra parte la parola di una madre italiana vale più della lingua di due rom anche perché una zingara è sempre una prostituta, la Carmen di Bizet. Quattro mesi di carcere prima che il giudice assolvesse questa coppia che non aveva commesso il reato se non quello di essere vestiti come gli zingari: alberi di natale luccicanti bigiotteria, appunto donne fatali come Carmen e non pudiche Lucia. Nessun organo di stampa riprese la notizia perché le scuse non vendono copie anche se restituiscono dignità, rinnovano il mestiere di un giornale, di un giornalista che è quello di dare le lenti ai miopi, di fare cadere come pezzi di domino le certezze.
Eppure nella loro storia di camminanti, c’è la transumanza dei popoli, l’instabilità e ormai l’a-storica barriera delle frontiere. Ma è un errore considerare i rom, un’etnia di instabili artisti del dolce far niente; vero che il loro nomadismo è inscritto nella missione circense di girare il mondo, come gli artisti di commedia dell’arte, ma altrettanto vero è che la loromaestria si esplica nell’arte del rattoppo, dell’aggiustare. Stagnini, fabbri, carpentieri, meccanici, hanno girato come ambulanti delle riparazioni fino a quando serviva conservare gli oggetti e non buttarli. Non è difficile trovare esempi di rom che si sono fatti stanziali e hanno supplito al calo demografico e di manovalanza dei piccoli territori. Nella provincia di Catania, Maletto, è una riserva di rom integratasi e addirittura necessaria per l’economia della zona. Epperò non è una questione d’integrazione, che nella maggior parti dei casi è annettere senza memoria, accettare lo straniero soltanto nel momento in cui si italianizza anche nei difetti. Non si misura la sicurezza e la convivenza nell’integrare ma piuttosto nell’accettare questo piatto di legumi che sta modificando il paesaggio e il ritratto degli italiani, dei siciliani. Le città non possono essere campi di un colore ma appunto sono oramai astucci colorati e accettare significa riconoscere la profezia di Calvino: Ersilia è la città dei fili dei rapporti che vengono abbandonati, mentre ad Eufemia si condividono i ricordi, queste sono oggi le città.
Alla fine zingari sono oggi gli abitanti di San Fratello, Giampilleri, dell’Aquila, di tutte quelle città dove la natura ridisegna se stessa, e sono forse ancor più i siciliani che stanno sotto al Mongibello perché: “A popoli che un’onda/ di mar commosso un fiato/ d’aura maligna, un sotteraneo crollo/distrugge”. Il loro rifugio è quello provvisorio ma non per questo deve essere meno sicuro, di chi aspetta un alloggio popolare, e nei cavanserragli pure Giuseppe e Maria, zingari delle scritture, avevano bisogno del fiato caldo di un bue, di una stufa che non s’incendi, di un tetto che non grondi acqua. Ed è per questo che l’immagine cara di una zingara è per me quella di una mendicante che in uno dei caselli di Catania, porge il biglietto in una nuvola di scarichi leggera come in una tela di Chagall. Anch’io ho visto degli zingari felici.