PALERMO – È una questione di prefissi. Se abbondano vuol dire che i conti non tornano. Come nel caso dell’antimafia. Basta guardare cosa accade alla Procura di Caltanissetta, dove ormai lavora in servizio permanente ed effettivo la Direzione distrettuale anti-antimafia. C’è un anti di troppo. Imposture, comitati di affari e carriere sono proliferati sotto l’ombrello della lotta a Cosa nostra. E ora sul campo restano le macerie.
Era il 1991 quando si colse l’importanza del coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata. La repressione del terrorismo lasciava in dote, oltre alle lacrime e al sangue per i morti ammazzati, un vincente modello investigativo. Lo scambio di informazioni fra magistrati e polizia giudiziaria non poteva più essere demandato alla lungimiranza dei singoli. Bisognava mettere a regime esperienze come quella del pool antimafia di Palermo guidato da Antonino Caponnetto. Il giudice istruttore Rocco Chinnici fu il primo a comprendere la forza della circolazione delle notizie. Non gli diedero il tempo di verificare la bontà della sua intuizione. Lo ammazzarono un decennio prima che la mafia spingesse l’asticella oltre l’orrore con le stragi del ’92-’93.
Nel novembre 1991 nacquero le procure distrettuali antimafia, coordinate da quella nazionale. Ventisei pool di magistrati specializzati nelle indagini sulla criminalità organizzata. Una per ciascun distretto di Corte d’appello. Lo spiegamento di forze e risorse ha prodotto risultati che ormai appartengono alla storia del Paese. Cosa nostra, almeno nella sua declinazione corleonese, è stata sconfitta nonostante corleonese sia l’ultimo dei padrini latitanti. E cioè quel Matteo Messina Denaro che appare più preoccupato a nascondersi che a gestire il territorio. Le sue impronte sono impalpabili. Sembra un fantasma, a dispetto di una onnipresenza sbandierata nei dispacci ufficiali. Tutto viene ricondotto all’immanenza del padrino di Castelvetrano. La mafia trapanese appare priva di un’esistenza autonoma dal latitante, che c’è sempre e comunque. Tutti gli altri corleonesi sono detenuti al 41 bis. Alcuni ci sono pure morti al regime del carcere duro, come Bernardo Provenzano.
L’attuale lavoro investigativo si muove su due linee. La prima è quella che tiene sotto osservazione i mafiosi che escono dal carcere, ancor più di quelli che vi finiscono dentro. Le cronache sono zeppe di scarcerazioni per fine pena. È la mafia dei soliti noti. Di chi, dopo una parentesi di apparente buona condotta, torna agli affari sporchi. Lo fa per necessità – altrimenti gli toccherebbe andare a lavorare – oppure perché animato dall’istinto di autoconservazione dell’organizzazione, il cui spessore criminale si livella sempre più verso il basso. Qualcuno deve pur sobbarcarsi l’onere di guidare i picciotti della manovalanza che chiede il pizzo in giro per i negozi e spaccia droga. Si muovono, però, dentro la gabbia delle conoscenze acquisite dagli investigatori. È solo questione di tempo. Prima o poi finiranno di nuovo sotto accusa. Non per questo, però, il fenomeno mafioso può essere archiviato del tutto. Si correrebbe il rischio, un giorno, di pagare un dazio pesantissimo. Ci sono sacche di popolazione che subiscono ancora il fascino, oltre che le angherie, degli uomini d’onore.
La seconda linea investigativa guarda invece – ed è la più interessante – a quella sfilza di professionisti che hanno consentito alle storiche famiglie mafiose di schermare patrimoni che nel frattempo puzzano sempre meno di mafia.
Ai magistrati di Caltanissetta è toccato sperimentarne una terza di via, quella dell’anti-antimafia. I segnali c’erano stati e anche fragorosi. Per una volta, però, non occorre rinverdire il dibattito sui professionisti dell’antimafia di sciasciana memoria. Basta guardarsi attorno, attenersi agli atti giudiziari, pur nella presunzione di non colpevolezza che vale per i mafiosi come per gli antimafiosi. I clan Di Gristina, Madonia ed Emanuello – per citare solo alcuni dei potentati mafiosi del Nisseno – sono stati decimati dagli arresti. I magistrati, oggi guidati da Amedeo Bertone, sono impegnati a smascherare chi – e se – abbia sfruttato la divisa dell’antimafia con il solo scopo di confondere le acque. I cattivi si sarebbero vestiti da buoni. O addirittura, fanno delle toga un vessillo per l’impunità.
A Caltanissetta si indaga su Antonello Montante. Nessuno, anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a iscriversi al partito dell’io l’avevo detto, avrebbe potuto mai dubitare sulla bontà della sua azione antimafia. Su di lui era persino caduta la scelta del governo per guidare l’Agenzia dei beni confiscati ai boss o agli imprenditori in combutta con i mafiosi. Ed invece è arrivata l’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Montante si deve difendere dalle dichiarazioni di alcuni pentiti e dalle bordate di Marco Venturi, altro storico esponente degli industriali che si è scagliato contro, così lo ha definito, il “grande inganno della rivoluzione”. Per la verità l’indagine va avanti da un po’. Dopo l’avviso di garanzia e le perquisizioni, sono trascorsi mesi di silenzio, dovuto anche alla nomina del nuovo procuratore che, una volta insediatosi, avrà di certo voluto conoscere ogni passaggio della delicata indagine.
Il presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale per la legalità è stato uno degli artefici della svolta etica di Confindustria. Non c’era convegno in cui non si registrasse la presenza del corteggiatissimo Montante assieme a prefetti, questori, magistrati e ufficiali delle forze dell’ordine. Molti contatti illustri – era impossibile che non ne avesse avuto con dei giudici – sono finiti nell’archivio di Montante che i pm nisseni hanno trasmesso per competenza a Catania. Forse inaspettata è stata la scoperta della sua maniacale abitudine di scrivere ogni cosa, tanto che qualcuno si è spinto a utilizzare per definire i suoi file la parola dossier che rimanda a sinistre valutazioni. Nulla di penalmente rilevante per stessa ammissione di chi indaga. La Procura di Catania ha archiviato il fascicolo. Il contenuto, però, è finito sul tavolo del Consiglio superiore della magistratura con i nomi di una decina di giudici. L’industriale annotava tutto, dal più istituzionale degli appuntamenti alle segnalazioni per un posto di lavoro. Negli ampi stralci degli appunti pubblicati sulla stampa comparivano i nomi, tra gli altri, di magistrati dell’antimafia che indossa la toga. Come Roberto Scarpinato che a Montante, nel maggio 2012, avrebbe consegnato la “composizione Csm con i suoi scritti per nuovo incarico… Procura generale Palermo + Dna”. Scarpinato era allora procuratore generale a Caltanissetta, oggi lo è a Palermo. E c’era pure il nome di Sergio Lari, che da capo dei pm nisseni, assieme all’aggiunto Nico Gozzo, aveva avviato l’inchiesta su Montante. Sul conto dell’attuale pg nisseno l’imprenditore aveva conservato il curriculum di un agente della sua scorta deceduto e un appunto con il riferimento ad un “biglietto Lari per Roma Chianciano” in occasione di un convegno.
Per anni Montante è stato il simbolo di un nuovo modo di fare impresa senza piegarsi o, peggio, strizzare l’occhio ai mafiosi. Ora attende di conoscere la sua sorte giudiziaria che passa, anche e soprattutto, dalla valutazione dell’attendibilità di quattro pentiti, i quali sostengono che la sua scalata imprenditoriale sia macchiata dal peccato originale del legame con i mafiosi di Serradifalco, suo paese natio. Montante, dal canto suo, ha sempre considerato le accuse dei collaboratori come la vendetta di persone che lui stesso ha denunciato. Si attendono notizie, magari a breve visto che a Caltanissetta hanno “sbloccato” l’inchiesta sul sistema Saguto. Se sul caso Montante si gioca la credibilità di una parte, seppure autorevole, del recente movimento antimafia, con lo scandalo che ha picconato le Misure di prevenzione è l’Antimafia stessa a giocarsi la faccia. I finanziari della Polizia tributaria hanno consegnato alle cronache uno spaccato indecente di consulenze, incarichi e favori che avrebbero risposto a logiche di arricchimento. La competenza e la buona gestione della cosa pubblica sacrificate sull’altare degli interessi personali; le amministrazioni giudiziarie trasformate in un cavallo di Troia per entrare in un sistema potere, parallelo e molto redditizio. I danni provocati vanno oltre le singole posizioni di Silvana Saguto e degli altri indagati che avranno tempo e modo di difendersi. È la giustizia che ne esce con le ossa rotte. Nell’immaginario collettivo dilaga la comprensibile convinzione che ogni sequestro sia motivato dall’avidità di alcuni piuttosto che giustificato dalla necessità di allontanare la presenza mafiosa. Scricchiolano le basi di un modello che appariva granitico nella sua capacità di colpire gli interessi di Cosa nostra. Un modello che affonda le radici nella legge Rognoni – La Torre del 1982. Sulla base del principio della pericolosità sociale venivano introdotte le misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Nel mirino finiva la cosiddetta imprenditoria mafiosa, senza contare che spesso la figura di boss e imprenditore coincidevano. E tutto il mondo ha guardato all’efficienza del modello italiano.
È accaduto nell’indagine su Montante e si è ripetuto per il caso Saguto: uno stralcio di atti è stato trasmesso a Catania. In alcune intercettazioni, infatti, è venuto fuori il nome di Giovanbattista Tona, stimatissimo giudice della Corte d’appello di Caltanissetta, considerato il mentore del professore dell’università Kore di Enna, Carmelo Provenzano, uno degli amministratori giudiziari del cerchio magico di Saguto. L’ex presidente e il professore progettavano un “triangolone” per alimentare il giro di consulenze da assegnare a parenti e amici. Tona, con la sua storia di giudice antimafia, ne doveva fare parte? Ai pm catanesi e nisseni l’onere di trovare risposte nel tentativo di restituire credibilità all’intera categoria.
Un po’ come è accaduto per le indagini sulle stragi del ’92. E qui la storia dell’anti-antimafia si fa paradossale. Ci sono voluti due decenni per capire che la magistratura ha preso, nella migliore delle ipotesi, un abbaglio colossale o, nella peggiore, che era parte di un depistaggio. Al processo Borsellino quater davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta – la sentenza dovrebbe essere emessa fra qualche settimana – magistrati e investigatori sono stati messi a confronto con i pentiti fasulli. Sulle bugie di Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta sono stati costruiti processi che hanno incredibilmente retto in tutti i gradi di giudizio fino alla condanna di innocenti. Alcuni degli ergastolani scarcerati dopo anni di ingiusta detenzione di recente sono stati di nuovo arrestati. Ciò non assolve la giustizia dalle sue colpe. Il dilemma resta in piedi: Scarantino e soci erano pataccari con la protezione di Stato o attori, pupi vestiti, per un vergognoso depistaggio? Persino due pentiti dall’attendibilità certificata come Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante avevano messo in allarme i pm dalle balle di Scarantino. Niente, si è andati dritti fino alle condanne. Pubblici ministeri come Giovanni Tinebra, Anna Palma, Carmelo Petralia e un giovane Antonino Di Matteo che dell’Antimafia portano i gradi presero per buone le dichiarazioni dei collaboratori. Nessun dubbio. Impossibile ex post ricostruire quei convulsi anni in cui la necessità e forse la fretta di trovare un colpevole potrebbe averne condizionato le valutazioni. Di certo sono stati ingannati. Il Borsellino quater è ormai alle battute finali. Secondo i pm nisseni Stefano Luciani e Gabriele Paci è stato Scarantino “a inventarsi di volta in volta bugie e falsità, accogliendo i suggerimenti degli investigatori e fornendo le risposte che si aspettavano”. Lo avrebbe fatto “per un tornaconto personale consistente nell’uscire dal carcere e avere dei benefici”. Da solo, però, il picciotto della Guadagna, non avrebbe potuto costruirsi il copione con cui ha ingannato i magistrati. Il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, oggi deceduto, e gli uomini del suo pool investigativo ne avrebbero condizionato il racconto con “abusi e pressioni psicologiche”. Ci sono tutti i presupposti per un Borsellino quinques. Perché, volendo usare le parole di Luciani, si è finiti dentro un labirinto. E allora si parlerà ancora di mandanti esterni e stragi di Stato, si darà voce a qualche pentito che riacquista d’incanto la memoria o al Ciancmino jr di turno che tenta di accreditarsi. Nessuno, però, è venuto in aula a dire “scusate, abbiamo sbagliato”, hanno fatto notare gli avvocati dei finti colpevoli. Hanno sempre e solo difeso il loro operato. Spetta ad altri l’ingrato compito di raccogliere le macerie dell’antimafia.