Autonomia differenziata, tutto quello che non funziona nella riforma - Live Sicilia

Autonomia differenziata, tutto quello che non funziona nella riforma

La riflessione su un tema delicato

“La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge”. È il testo del secondo comma dell’art. 127 della Costituzione.

Sono adesso quattro le Regioni – Puglia, Sardegna, Toscana e Campania – che in forza di tale norma hanno promosso la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta avverso la legge 26/06/2024 n. 86, la cosiddetta legge Calderoli, ministro per gli Affari regionali della Lega, sull’Autonomia differenziata.

La Sicilia non ha ritenuto di seguire la medesima strada, al contrario, per bocca del suo governatore Renato Schifani non ha colto nella legge 86/24 alcuna minaccia per le regioni del Sud, anzi, ne ha tratto occasione per lodare il governo nazionale guidato da Giorgia Meloni.

Certo, un sospetto Schifani avrebbe dovuto averlo se il suo stesso partito, Forza Italia, attraverso suoi autorevoli esponenti, in particolare il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, ha espresso non una ma parecchie perplessità sul modo di procedere nell’applicazione dell’Autonomia differenziata. Antonio Tajani, leader di FI, ha addirittura fissato dei paletti irrinunciabili. Prima occorre determinare e finanziare i Lep e per le materie non vincolate ai Lep occorre valutare l’impatto sull’unità nazionale.

I Lep sono i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che lo Stato deve garantire in modo uniforme a tutti i cittadini. Riguardano diritti civili e sociali da tutelare. Non so se la Corte Costituzionale dichiarerà ammissibili i ricorsi delle quattro regioni all’inizio citate.

Il punto è delicato perché non si tratta di giudicare sull’intero impianto normativo che presumibilmente presenta profili di incostituzionalità ma soltanto sulla lesione di competenze delle regioni ricorrenti, lesione magari rintracciabile nella carente interlocuzione nell’iter legislativo che ha condotto all’approvazione della Calderoli tra il governo di Roma e le regioni, nella mancanza di criteri guida e generali sulla determinazione dei Lep e nell’incerta futura capacità dello Stato, per carenza a quel punto di risorse centralizzate, di adottare misure perequative idonee a colmare i divari territoriali sul piano socio-economico.

Resta comunque il referendum abrogativo per il quale sono state raccolte le firme prescritte in tempi record. Analizzando senza tecnicismi giuridici la legge Calderoli, ci torneremo per osservarne i molteplici aspetti, apparirebbero evidenti anche a un bambino gli enormi rischi incombenti sull’unità del Paese e sull’armonizzazione giuridica, economica e sociale, in atto quasi inesistente, tra il Meridione e il Settentrione d’Italia.

Stiamo parlando del possibile trasferimento di ben 23 materie alla competenza legislativa delle regioni con la conseguente creazione di una nazione arlecchino con la quale diventerebbe complicato interloquire, penso agli organismi europei e internazionali. Sarebbe come cercare di dialogare con uno Stato parcellizzato in 20 staterelli l’uno in competizione con l’altro.

Per entrare nel concreto voglio citare alcune materie strategiche che potrebbero passare alla potestà legislativa delle regioni: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni, commercio con l’estero, istruzione, tutela della salute, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, alimentazione, protezione civile, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, energia.

Si possono individuare ambiti che anche il leghista animato dalla più estrema tensione autonomista dovrebbe immediatamente rinviare a un’esclusiva riserva statale (grandi reti di trasporto e di navigazione e istruzione, ad esempio). Insomma, inevitabile la derivante confusione normativa con maggiori spese e maggiore burocrazia per i cittadini e le imprese, ma soprattutto con ulteriori disparità di trattamento a seconda della regione di residenza.

Non è un caso la posizione critica della Banca d’Italia e dell’Ufficio parlamentare di Bilancio nei confronti della legge sull’Autonomia differenziata. Secondo questi importanti soggetti terzi sarà assai arduo assicurare l’invarianza dei saldi della spesa pubblica sulla base dei principi cardini della riforma.

Non è un caso la bocciatura della Commissione Europea: “L’attribuzione di competenze aggiuntive alle regioni italiane comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche”. Non è un caso la posizione critica della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana presieduta dall’Arcivescovo di Bologna cardinale Matteo Zuppi, che ripetutamente è intervenuta per ribadire la sua contrarietà a questo tipo di autonomia che allargherà le distanze tra chi sta meglio e chi peggio pregiudicando il processo di unificazione del Paese su cui ancora c’è da lavorare.

“Il Sud ha capito che la riforma è un cavallo di Troia per creare due Italie: una prospera, l’altra abbandonata a se stessa. Non solo avremo tante Italie quante le Regioni, ma si rischia pure un Far West tra quelle povere. Una secessione dei ricchi”. Parole di monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano All’Ionio e vicepresidente della CEI.

L’atteggiamento così severo dei vescovi italiani non è un dettaglio perché in proposito stanno emergendo le preoccupazioni della stessa Meloni su un inopportuno, per lei, conflitto con il mondo cattolico, mondo verso cui, invece, mostra decisa attenzione l’azione politica del capo di Forza Italia Tajani che non intende rimanere schiacciato tra le voglie secessionistiche del partito di Matteo Salvini e le chiusure sui diritti sociali e sulle politiche migratorie di Fratelli d’Italia.

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