PALERMO – Quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. I numeri dicono che l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è la più grande holding dell’intero paese. Un colosso dell’economia che ha in mano un patrimonio che vale 30 miliardi di euro. Per rendere meglio l’idea si potrebbe dire che si tratta del più grande amministratore di condomini che ci sia in circolazione. E, come spesso avviene, i condomini sono pieni di questioni da risolvere, ma sono anche luoghi di intrighi e liti di vicinato.
Il caso Montante, esploso l’altro ieri, e alcune conseguenti dichiarazioni finiscono per fare intrecciare il piano giudiziario della vicenda con quello politico. E in particolare con la questione dell’Agenzia dei beni confiscati. Da alcune settimane lo stesso Antonello Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale per la Legalità di Confindustria, fa parte del direttivo dell’Agenzia. Quando ieri il quotidiano La Repubblica ha scritto dell’esistenza di due inchieste a carico di Montante, una a Caltanissetta e l’altra a Catania, si è sollevato un coro quasi unanime di solidarietà e stima nei confronti di Montante, tirato in ballo da tre collaboratori di giustizia.
Il “quasi unanime” è dovuto tra l’altro alla nota del Movimento 5 Stelle e alle parole di Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, che chiedono a Montante, in sostanza, di fare un passo indietro, di farsi da parte e lasciare l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. È una voce pesante nella galassia del movimento antimafia quella di Libera, alla testa di un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. Libera non gestisce direttamente i beni confiscati, ma promuove i percorsi di riutilizzo dei beni.
Impossibile conoscere cosa ci sia nei fascicoli “riservatissimi” delle Procure di Caltanissetta e Catania, a parte le foto del matrimonio di Montante che nel 1980 scelse come testimone di nozze Vincenzo Arnone, figlio di quel Paolino che dodici anni dopo, nel 1992, morì suicida in carcere dopo essere stato coinvolto in un’inchiesta per mafia. Potrebbe essere lo stesso Arnone, pure lui finito in carcere un anno fa, ad accusare Montante, così come ha fatto Dario Di Francesco, ex dipendente del Consorzio Asi di Caltanissetta arrestato l’anno scorso. Su Arnone e Di Francesco la Confindustria di Montante nel 2013 aveva invitato magistrati e prefetti ad indagare, inquadrandoli fra coloro che rappresentavano il modello da lasciarsi alle spalle.
Nel fascicolo, stando a quanto riporta ieri il Corriere della Sera, ci sarebbero alcune anomale registrazioni. Il 2 ottobre scorso, nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, fu recapitato una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato, con tanto di intercettazioni. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcuni imprenditori e personaggi discussi seduti al tavolino di una bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello, promotori della rivolta antiracket di Confindustria avviata nel 2005: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che l’altroieri ha espresso fiducia a Montante, hanno consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo ha trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi.
Ce n’è abbastanza per parlare di intrigo. Giudiziario e politico. Perché politica è la scelta di inserire Montante nel direttivo dell’Agenzia dei beni confiscati, nominato con il compito di sistemare un organismo che ha mostrato pesanti lacune. Oltre il 47% dei beni confiscati alla mafia in via definitiva si trova in Sicilia, seguita dalla Campania e dalla Calabria. Nell’Isola i beni sottratti ai boss sono più di 5.200, di cui, però, solo duemila sono già stati destinati ed assegnati. Il maggior numero di beni confiscati si trova a Palermo 3478 (1317 quelli consegnati), seguita da Catania (613) e Trapani (376). Non assegnare un bene, non metterlo nel circuito del riutilizzo a fini sociali, significa correre il rischio che resti in mano, direttamente o indirettamente, agli stessi mafiosi a cui è stato strappato a fatica. A parlare di allarme più che un rischio, per la verità, ci ha pensato nei giorni scorsi la Dia. In un rapporto della Direzione investigativa antimafia emerge che sui 10 mila beni confiscati, 1.300 sono ancora occupati dai mafiosi. Cinquecento di questi si trovano in Sicilia.
Compito arduo quello dell’Agenzia nazionale creata nel 2009 per subentrare alla infelice gestione di un’altra agenzia, quella del Demanio. Fino all’anno scorso alla guida dell’organismo che dipende dal ministero dell’Interno c’era Giuseppe Caruso che, prima di andare via ammise, e pure con toni polemici, di non avere le forze per gestire la questione. O meglio, la patata bollente che alcuni mesi fa è passata al neo direttore Umberto Postiglione, ex prefetto di Agrigento, poi di Palermo ed ex-commissario straordinario per la provincia di Roma. A proporlo al Consiglio dei ministri è stato il ministro dell’Interno Angelino Alfano a cui spetta la vigilanza dell’ente.
I problemi dell’Agenzia sono tanti. Da anni si discute su cosa fare per farla girare al meglio. A cominciare dal coinvolgimento di figure professionali che abbiano un ruolo manageriale e non solo prefettizio. E così a fine gennaio il nuovo assetto di vertice è stato completato. Il Governo ha nominato i membri mancanti del Comitato direttivo dell’Agenzia. Ci sono il magistrato Mariella De Masellis e il rappresentante del ministero dell’Economia e delle Finanze, Marco Germignani. E c’è il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, cui spetta il compito di aggiungere il quid imprenditoriale da più parti invocato come necessario e al quale ora il Movimento 5 Stelle e Libera chiedono di fare un passo indietro. Al direttivo spetta l’onere di rispondere alle sollecitazioni esterne. Per ultime quelle sollevate da Reggio Calabria a Torino, durante la recente inaugurazione dell’anno giudiziario: “Il sistema allo sbando e frana da tutte le parti” perché “ripristinare la legalità è quasi impossibile”.