PALERMO – Era prevedibile. Silvio Berlusconi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo status di testimone assistito dava spazio alla sua scelta processale. Era stata la difesa di Marcello Dell’Utri a citarlo nel processo di appello per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Berlusconi non risponde – “su consiglio dei miei avvocati”, dice – non venendo in soccorso dell’amico Dell’Utri.
In primo grado, così hanno scritto i giudici nella pesantissima sentenza di condanna, è stato ricostruito che sarebbero stai tre, tra il 1992 al 1994, i governi minacciati: Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e infine di Silvio Berlusconi. Nei primi due casi la mediazione sporca sarebbe stata portata avanti dagli ufficiali dei carabinieri, su tutti Mario Mori (anche lui condannato in primo grado), mentre nel caso del Cavaliere se ne sarebbe occupato Dell’Utri.
Dell’Utri si occupò anche del patto fra le famiglie mafiose e Berlusconi che, fino al 1992, pagò il pizzo alla mafia. Secondo la ricostruzione della Procura, che ha retto al vaglio della Corte d’assise, Dell’Utri, referente di Cosa nostra, subentrò ai carabinieri nella gestione della trattativa. Dell’Utri è stato condannato perché a partire dal 1993 avrebbe esercitato pressioni e minacce su Berlusconi che un anno dopo sarebbe divenuto premier.
Siamo già nella seconda fase della Trattativa, quando le redini sono ormai in mano a Bernardo Provenzano, quando sarebbero entrati in gioco Berlusconi e Dell’Utri. “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994 – si leggeva nella motivazione della sentenza di primo gardo – si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″.
La mafia puntava sulla discesa in campo del Cavaliere. Dell’Utri fece sapere a Vittorio Mangano che il governo Berlusconi avrebbe adottato provvedimenti che la mafia chiedeva da tempo. I giudici hanno scritto che “l’evento del reato contestato non è costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati ma esclusivamente dalla percezione da parte di Berlusconi, in qualità di capo del governo, della pressione psicologica operata da Cosa nostra col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi”.
E siamo al cuore della “mancata” deposizione di oggi. I legali di Dell’Utri, Francesco Centonze e Francesco Bertorotta, avrebbero voluto che l’ex premier venisse in soccorso dell’amico Dell’Utri, ribadendo in aula anche il contenuto di un’intervista in cui, pochi mesi fa, diceva: “Non abbiamo ricevuto nel 1994, né successivamente nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti. Vorrei ricordare che i miei governi hanno sempre operato nella direzione di un contrasto fortissimo nei confronti della mafia, abbiamo incrementato la pena del 41 bis rendendola più dura e l’abbiamo anche spostata sino alla fine della detenzione invece che per un certo più stretto periodo”.
Con la sua mancata testimonianza si rompe probabilmente un lungo rapporto. La moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti, si era già mostrata molto rammaricata quando nei mesi scorsi si ventilò l’ipotesi che Berlusconi non rispondesse.
Berlusconi e Dell’Utri hanno anche condiviso una lunga stagione giudiziaria. Del possibile ruolo di Berlusconi nelle stragi si parla da ventitré anni. A partire dal 1996 il leader di Forza Italia è stato indagato tre volte, fra Firenze e Caltanissetta, e le inchieste sono state sempre archiviate. Nel 2017 la Procura toscana lo ha di nuovo iscritto nel registro degli indagati sulla base delle intercettazioni in carcere del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, il quale parlava delle stragi del ’93 come una favore fatto a Berlusconi per spianarne la discesa in campo politico.