Apparentemente vivono su un altro pianeta, parlano una lingua barbarica, sono i campioni di una bestialità di cui nulla sappiamo. Nella realtà, i personaggi – tra presunti boss e gregari – arrestati in gran numero nell’operazione ‘Apocalisse’ vivono accanto a noi, indirizzano le nostre stesse esistenze, sono i padroni del sopruso e del dolore in una città disperata, a Palermo, capitale mondiale della mafia e dell’antimafia. Dopo le manette e i flash, dopo l’abbondanza di materiale mediatico che ci ha mostrato il corpo di Cosa nostra nella sua palese ripugnanza, c’è una sola cosa da fare: capire come voltare pagina. Ci sono stati blitz, latitanti arrestati, operazioni delle forze dell’ordine, indagini dei magistrati. Eppure, da bassifondi che nemmeno conosciamo e che esistono fisicamente, non nella letteratura sociologica e mediatica, spunta sempre fuori lui, declinato con facce, accenti e vestiti mutevoli: il mafioso antropologico, persistente, inemendabile.
Come il vampiro che sa trasformarsi in aria, lupo, o pipistrello, il mafioso antropologico può assumere sembianze differenti, conservando – proprio come il vampiro – un inconfondibile profilo identitario. Il mafioso parla una lingua attraversata da fonemi arcaici, da suoni gutturali che spaventano, da vocaboli ignoti che non riusciamo a tradurre e che intendiamo benissimo nel peso della sopraffazione. Si vanta del sangue, prendiamo ad esempio quel tale che per dimostrare l’eccellenza del suo pedigree ricorda all’interlocutore di essere consanguineo del killer che, nientemeno, freddò il detective Joe Petrosino. Il sangue accomuna il mafioso e il vampiro. Entrambi lo cercano, lo spargono. Entrambi, nella dinastia di globuli dannati, rintracciano una mappatura genetica, l’appartenenza a un male che non può mai diventare bene. E ne sono contenti. Il vampiro è disperatamente felice del suo stato di carnefice. Il mafioso è orgoglioso della sua ferocia. Rivendica omicidi di “sbirri”. Fa riferimento agli arresti senza preoccupazione alcuna, considerandoli alla stregua di un diploma di laurea, il titolo in più di un ricco cursus honorum.
Essi, gli alieni, coloro che consideriamo tali, non sono lontani da noi. Invisibili, mimetizzati in lineamenti normali, ci strisciano accanto nella loro sostanza di scarafaggi. Decidono chi vessare e chi risparmiare. Condizionano eventi e persone. Retate come “Apocalisse” rappresentano un opportuno shock, un lampo che svela la zona buia e ci mostra la prossimità dell’orrore. Sono in mezzo a noi. Si baciano. Terrorizzano. Comandano. E se si adoperano per risolvere la sofferenza di una vecchietta che è rimasta senza posteggio sotto casa, è un ovvio espediente per allungare il potere delle ombre. Respiriamo immersi nella mafia. Siamo vittime di mafia che non sanno come costruire un profondo cambiamento. Cambiare Palermo, con la Sicilia, significa soprattutto offrire un’alternativa agli incatenati che vorrebbero tornare in libertà e che accettano il circolo vizioso, perché non trovano altro a portata di mano.
C’è una quota parte di siciliani che con la mafia convive in piena sintonia. Che apprezza chi, grazie al corrispettivo del pizzo, protegge un’attività commerciale, evitando, per esempio, la concorrenza. Che vede nel posteggiatore abusivo non il frutto odioso del caos, della disorganizzazione, ma un “padre di famiglia” che ha il diritto “di buscarsi il pane”, utilizzando una esibita o implicita intimidazione. Esistono siciliani che non sopportano le regole. Meglio la legge suprema della relazione, dei rapporti, della contiguità. C’è poi una porzione che inventa, senza clamori, né parate, una strada di vera antimafia, con impegno e pazienza, a costo di rimetterci. C’è infine la probabile maggioranza. Sono tanti, in mezzo al guado e sperimentano le storture di una condizione di cattività, adeguandosi loro malgrado. Le operazioni “Apocalisse” danno un’esatta radiografia. Sotto la patina di una linearità superficiale, svelano la presenza del mafioso antropologico, capace di controllare i movimenti strada per strada, di imporre assunzioni, di chiacchierare, sorridendo, dell’imminente arresto, che nulla sposta nella sua personale scala di destini e accadimenti.
Come si cambia? Come si elimina il male? Fornendo agli onesti imprigionati la chiave d’accesso di una rivoluzione sostenibile. Per salvare un’anima dal sangue e dalla paura, è obbligatorio cominciare dal corpo, cioè dal territorio, con l’insediamento di un sistema di diritti esigibili, protetti dalla legge della comunità, non dal potere relazionale dei nuovi barbari. Se un “padre di famiglia” con cappellino e borsello pretende la custodia a pagamento della macchina, lasciando intendere che altrimenti potrebbe succedere qualcosa di spiacevole, è opportuno che sia disponibile l’unico custode autorizzato della legalità, un rappresentante dello Stato, per tutelare la serenità del parcheggio. Se un ambulante decide di annettersi abusivamente un pezzo di città, con barriere e reticolati di fortuna, impedendo il passaggio al resto del mondo, i tutori delle forze dell’ordine non possono limitarsi ad allargare le braccia, sconsolati. Se il disabile o la vecchietta hanno il divieto di sostare sotto casa, per via di un prepotente che conta su arroganza e protervia, non devono restare in balia di una minaccia.
C’è un problema di vuoto che va riempito con la presenza dei diritti teorici e di chi concretamente si occupi del la loro applicazione. Abbiamo bisogno di schierare una politica attenta, una amministrazione che sappia alzare la voce con tutti, non esclusivamente con gli inermi che non sono né furbi, né arroganti, né prepotenti. La legalità, quando funziona, propone una misura di regole condivise perché giuste e convenienti. Solo questa certezza può sostituire alla signoria del mafioso antropologico la libertà civile delle persone. Solo così riusciremo finalmente a cacciare i vampiri.