Su una parete, quella foto: decine di corpi allineati sulla banchina, dentro sacchi verdi e blu. Su un’altra, i disegni colorati dei bambini sfuggiti al naufragio. C’è una barca rossa e un mare azzurro. E la sagoma di un uomo tra le onde. Una sala dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Palermo è stata trasformata in un piccolo museo. La mostra Altromare racconta più di tanti trattati. In quella stanza, il fenomeno epocale dell’emigrazione è sospeso a metà tra la tragedia e la speranza.
“Sentiamo la responsabilità di quel ruolo, non certo il peso”. Antonio Candela dal 2013 dirige quell’azienda della Regione che gestisce alcune tra le più delicate fasi degli sbarchi. “Interventi complessi, certo, ma la macchina è ormai rodata” spiega Candela con un pizzico di orgoglio, facendo ricorso alla metafora del direttore d’orchestra. “Il nostro è un lavoro corale, di squadra, altrimenti non ce la faremmo. Abbiamo trasformato la gestione dell’emergenza in un modello stabile, che sembra funzionare”.
E in effetti per tracciare i contorni di un dramma biblico basterebbero i numeri: tra il 2013 e il 2014, solo a Palermo e sull’isola di Lampedusa sono giunti 25 mila immigrati, stipati su barconi fatiscenti. Ad accoglierli, insieme alle organizzazioni umanitarie, i medici dell’Asp di Palermo. “In qualche caso” racconta Candela “è gente che soffre di disidratazione o a causa di ustioni e ferite. Per il resto, tra migliaia di immigrati non abbiamo riscontrato mai alcuna particolare patologia”. Nessun rischio epidemie, nessun pericolo di infezioni, quindi. “Ogni immigrato che arriva a Palermo o a Lampedusa” insiste Candela “viene immediatamente visitato. E se serve, viene subito medicato”.
O meglio, “stabilizzato”, spiega il dirigente, descrivendo le operazioni incessanti e drammatiche in quella trincea tra terra e mare, come uno sforzo collettivo. “Ad attendere il migrante” continua “quelli che io chiamo “gate umani”. Medici, psicologi, infermieri che accolgono e visitano subito la persona. Se viene riscontrata qualche comune patologia come un ascesso, una lesione, una bruciatura, il migrante viene subito trasferito nelle tende che noi allestiamo al porto e all’interno delle quali sono presenti tutte le attrezzature necessarie, compresa una piccola farmacia”. Dopo le visite, i migranti passano nelle mani delle forze dell’ordine per il riconoscimento.
“Se le operazioni di sbarco” sottolinea Candela “si sono finora svolte senza particolari difficoltà è anche grazie al coordinamento del prefetto Francesca Cannizzo, che ha saputo coinvolgere le diverse strutture istituzionali e del volontariato che partecipano alle operazioni. A noi spetta il compito di offrire le prime cure in banchina riducendo al minimo gli accessi agli ospedali per evitare di ingolfare i pronto soccorso cittadini”. Un processo, quello dell’assistenza ai migranti, messo a punto strada facendo, grazie alle esperienze sul campo. “All’inizio” dice ancora Candela “avevamo sottovalutato, forse, l’importanza di una figura come quella del mediatore culturale, l’unica persona in grado di mettere in contatto il migrante con i medici che lo visitano, anche grazie alla conoscenza delle lingue e persino dei dialetti africani o asiatici. Così, in occasione di uno degli sbarchi più drammatici, il 3 ottobre 2013, mi diressi verso un volontario che aveva dimostrato di possedere queste competenze, gli feci indossare la pettorina dell’Asp di Palermo e gli dissi: da questo momento lavori per noi”.
Perché sulla banchina, trasformata per metà in un cimitero e per metà in un ospedale d’emergenza, non si può andare molto per il sottile. “La cosa incredibile è che sono sempre di più i medici della mia azienda che chiedono di prendere parte, da volontari, a queste operazioni”. La squadra di Candela è composta, tra gli altri, da ginecologi, ostetriche, dermatologi, chirurghi, infermieri professionali. “Ma non solo” puntualizza il dirigente: “Importantissima è la presenza di psicologi dell’emergenza, psichiatri, assistenti sociali. Molte delle persone che arrivano hanno visto morire davanti ai propri occhi figli, madri, fratelli”.
E di drammi, sotto gli occhi dei professionisti dell’azienda sanitaria palermitana ne sono passati diversi. “La tragedia del 3 ottobre 2013 in cui morirono a mezzo miglio dalla costa di Lampedusa 366 immigrati” ricorda ad esempio Candela “ci ha visti impegnati in prima linea sul molo per ore. Fu un’esperienza fortissima”. Nel 2013 gli immigrati sbarcati sulle coste italiane sono stati 42.925. Di questi più di un terzo (15 mila) hanno avuto quale primo approdo in Europa l’isola di Lampedusa. Ma dall’anno successivo, i porti di Pozzallo, Augusta, Siracusa, Messina e Palermo sono diventati, soprattutto nel periodo estivo, i terminali più frequenti dei viaggi della speranza. Le navi di «Mare nostrum» e di «Triton» hanno poi iniziato a distribuire i migranti negli altri approdi dell’isola. Tra settembre 2013 e il 31 dicembre 2014 sono stati 19 gli sbarchi a Palermo, che hanno portato sulle coste siciliane 6.087 persone. A Lampedusa, nel 2014 sono sbarcati 2.867 migranti, tra cui 330 minori. Ma oltre i numeri, ovviamente, ci sono le storie. Come quella di Kebrat, una bellisima ragazza eritrea. Il suo corpo, dopo un tragico naufragio nel 2013, fu recuperato, insieme a quello di tanti compagni di viaggio morti nel mare siciliano, da un peschereccio intervenuto in soccorso. Durante il rientro verso il porto, tra i cadaveri stipati sull’imbarcazione, il comandante Domenico Colapinto si accorse di un lieve movimento: la giovane era viva. Tra i morti. I soccorsi immediati dei medici dell’Asp di Palermo la salvarono. Anche quei tragici momenti sono immortalati sulle pareti del piccolo museo dei migranti, in una sala tra le tante dell’Azienda sanitaria di Palermo. Tra le foto della morte e i colori della rinascita.