CATANIA – Se dovessi raccontare la mia città, ahimè, non potrei in nessun modo dirmi felice di viverla. Non perché non mi piaccia o perché la ritenga sporca e pericolosa (sarebbe pura illusione inseguire, al giorno d’oggi, l’immagine di una città del sud Italia in cui manchino le caratteristiche di cui sopra). Non è per il traffico, sempre e comunque congestionato nelle strade principali – il cui asfalto, a proposito, andrebbe rinnovato di tanto in tanto, ma giusto per non sprofondarci dentro; e nemmeno per i mezzi pubblici, difficilmente utilizzabili o perché procedono a passo d’uomo o perché, come la metro, porta in punti facilmente raggiungibili a piedi, tagliando fuori gran parte della città. Semplicemente a Catania quasi nulla è “normale”.
Potrei parlare del fatto che una città come la nostra, dai più etichettata come perla del Barocco, manchi assolutamente di guide o percorsi turistici, avendo come unica risorsa un trenino (privato) che conduce ai più importanti monumenti, salvo poi non avere l’autorizzazione per entrare in Piazza Vincenzo Bellini, nonostante a oggi la stessa piazza sia una specie di parcheggio gratuito. Tra i motivi del mio malcontento non annovero nemmeno l’assoluta mancanza di regole o meglio, la totale assenza di qualcuno che queste regole le faccia rispettare: non parlo di rigidità né tantomeno di “controllori” – quelli non li vorrei nemmeno io – bensì di semplice ordine pubblico che vada dal fermare i nostalgici del motorino senza casco fino al multare chi distribuisce alcolici ai minori o chi crede che la città sia casa sua, insozzando le piazze con bottiglie vuote e gettate dentro le fontane o rotte e sparpagliate per il camminamento.
Ho iniziato questa mia lettera ammettendo di non potermi dire felice di vivere questa città, e allora voglio provare a immaginarla come piacerebbe a me: a misura d’uomo e con piste ciclabili che trasportino il ciclista dall’assolata via Etnea fino al bellissimo lungomare di Acitrezza; oppure con spazi verdi disseminati un po’ ovunque e decisamente più adatti, rispetto a immensi palazzoni, per trovare ristoro nelle giornate afose.
Sono una ragazza di 26 anni che opera nel settore sociale a Librino, presso il centro Talità Kum. Dire che la situazione del quartiere appare paradossale e fondamentalmente irrisolta, sarebbe come asserire che il cielo è azzurro. Dopo poco più di un anno di frequentazione, ho capito che Librino vive di vita propria e che come ogni entità autonoma e indipendente si è dissociata dalla città, arrivando a istituire delle vere e proprie leggi di comportamento non scritte e che solo chi frequenta la zona può comprendere. Ma, d’altronde, il problema degli “estranei” non si pone nemmeno, ad esempio io, che a Librino ci lavoro, sono costretta ogni giorno a prendere 2 autobus, il cui giro panoramico sembra non finire mai, e poi attenderli, alla sera, vicino a pensiline buie e scassate che sembrano direttamente uscite dai film di Spike Lee, ambientanti in un qualche sobborgo americano.
A Librino non ci sono parchi per i più piccoli né piazze dove i più grandi possono ritrovarsi; non esistono viali lungo i quali si può tranquillamente passeggiare ammirando l’Etna e non c’è nemmeno l’ombra di un campetto da calcio che si possa definire tale. O meglio, questo grazie al cielo c’è, il San Teodoro, ma quanta fatica hanno fatto i volontari e i Briganti per riprenderlo, valorizzarlo, metterlo a disposizione di tutti. Finisco, parafrasando una canzone di Dalla e le dico, caro sindaco, che le scrivo…così mi distraggo un po’ dalla pochezza della città in cui vivo.
Maria Elena Trovato