Cosa resta del 2 febbraio

Cosa resta del 2 febbraio

Una data macchiata di sangue. Una ferita insanabile. Tra ricordo e commemorazioni.

CATANIA. Il 2 febbraio di sedici anni fa, le luminarie facevano già bella mostra (come da tradizione) per tutto il centro storico della città. Non a caso quel derby da Serie A tra rossoazzurri e rosanero era stato anticipato al venerdì sera, meglio, alle ore 18: proprio per evitare qualunque concomitanza con la festa della Santa Patrona, con le strade che sarebbero divenute altrimenti impercorribili perchè stracolme di devoti, qualora si fosse giocato di domenica.
Le misure di sicurezza attorno allo stadio. Gli elicotteri che ronzavano fastidiosamente per tutta la giornata sopra quel tragitto automatico che porta al vecchio Cibali. Il consueto tam tam di insulti tra le due tifoserie nei giorni che avevano preceduto la partita. Non c’era nulla di diverso, in verità, rispetto a tante altre volte in quel calcio interpretato prima ancora come tensione e scontro a tutti i costi piuttosto che innocuo sfottò.


Conosciamo bene cosa accadde quella sera. Ne ricordiamo lo stato d’animo. L’incredulità e quel bollettino da guerriglia che registrò, fuori dallo stadio, decine di feriti e una vittima. L’ispettore di polizia, Filippo Raciti. L’attenzione dei media del pianeta si concentrò per diverso tempo su Catania. Dal lavello alla retromarcia del Discovery, scattò poi un processo divisivo. Che vide l’opinione pubblica tentare di approfondire e convincersi sull’accaduto.
Quella del 2 febbraio rimane una ferita lacerante. Insanabile. Che si è provato ad anestetizzare frettolosamente. Sono arrivate sentenze e condanne: ma lo spettro di quella sera resta ancora in modo evidente nonostante il rigetto.


Una data che ha segnato il futuro pacchetto di interventi legati alla sicurezza negli stadi italiani. Eppure, c’eravamo illusi che stessimo andando verso una speranza di redenzione con un’azione forte e condivisa. Per un po’ ha funzionato. Abbiamo intravisto un orizzonte diverso, stropicciandoci gli occhi. Poi, il meccanismo ipocrita del qualunquismo ha inghiottito ogni possibile vagito. E gli orologi sono tornati all’ora di partenza.
Di certo c’è che ne siamo usciti segnati. E, fuori dalle commemorazioni di rito e dalle celebrazioni; dalle frasi di circostanza e dai ricordi calendarizzati, non sappiamo dire cosa resti di quella data orrida e tragica.
Sappiamo cosa non c’è più. Chi non c’è più.
In un’alternanza di sentimenti che ci fa dire che nulla è cambiato anche se, alla fine, tutto è diverso.


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