Catania, giocare a porte chiuse: un danno per tutta la Città

Catania, giocare a porte chiuse: un danno per tutta la Città

Danno economico anche per chi lavora nell'indotto

CATANIA – Il freddo di dicembre è ancora più pungente quando si è costretti a giocare davanti a migliaia di seggiolini vuoti. O, al massimo, sotto l’occhio vigile di qualche giornalista e delle due panchine. Un vuoto che rende i colpi sul pallone ancora più secchi e le urla degli allenatori ancora più nette. Un suono straniante che in epoca Covid ci ha già lasciati sgomenti. Può mai essere questo il calcio? Certo che no. Anche i ragazzi che giocano nelle giovanili, spesso abituati agli applausi dei soli loro genitori, sognano di esibirsi davanti al grande pubblico, tra cori ed emozioni intense. È naturale che sia così. E la partita di ieri – al di là del risultato – ha lasciato tanta amarezza.

A metà gennaio saranno i giudici del Cga di Palermo a decidere sull’appello del club rossoazzurro, che evidentemente non ha gradito la decisione – confermata ieri dal Tar – di giocare a porte chiuse con il Sorrento. Un’iniziativa che non nasce soltanto dal dato romantico che vede nei tifosi il dodicesimo giocatore in campo. No, la questione è molto più concreta.

Il Catania Fc, così come ogni altro club calcistico, stringe un patto con i propri abbonati e con chiunque altro acquisti un ticket. Un patto da rispettare perché il contrario significa danno, soprattutto economico, scandito da rimborsi e mancati introiti. Un danno madornale. Lo stesso che hanno subito, per intenderci, i tanti commercianti che sperano nei grandi numeri in zona Cibali per poter rimpinguare le casse.  

Giocare a porte chiuse significa anche questo. Ciò non significa che chi ha autorità non debba prendere provvedimenti o cedere il passo ai facinorosi. In fondo, chi ha assalito il pullman dei tifosi del Pescara si è assunto una grave responsabilità e ne dovrà rispondere personalmente davanti ai giudici. Cosa c’entra, però, tutto il resto? Perché a pagare deve essere una società sportiva, gli atleti e, quindi, la Città tutta (già pesantemente colpita nell’immagine)? Soprattutto quando i fatti contestati sono avvenuti a chilometri dall’impianto sportivo e gli autori del gesto sono stati già raggiunti da provvedimenti. 

La questione è dibattuta da tempo e c’è chi pensa che non è così che si possa tenere a bada la violenza. O meglio: non in maniera definitiva. Il rischio è frustrare i sentimenti di chi ha a cuore o lo sport o il proprio lavoro. Innescare nuovo risentimento non servirebbe a nulla, anzi. Si trovino, dunque, nuove regole. Perché così, a uscirne sconfitti, sono proprio tutti.


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