Incompiuta, sospesa, in perenne indugio, eternamente attendendo qualcosa, qualcuno (il sindaco della Provvidenza?). Aspettando che passi la notte, che il lungo inverno stile le “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George Martin faccia luogo alla bella stagione. Una nuova Primavera? Anche un mite Autunno sarebbe gradito. Aspettando che vadano via i barbari. O, più banalmente, che arrivino ai posti di comando uomini in grado di amministrarla. Di risollevarla dalle derelitte sorti in cui è da tempo precipitata.
Catania è così da anni ormai. Non disperata. Ma certo con la speranza ridotta al lumicino. Non (ancora) in preda all’odio. Ma sicuramente incapace d’amore. Verso se stessa innanzitutto. «Catania e la Sicilia devono ritrovare la capacità di amarsi», dice da molto tempo uno dei candidati alla presidenza della Regione. Fosse facile. In città è un trionfo di violenze varie. Abusivismo soffocante (e infatti i commercianti onesti soffocano e chiudono le loro attività, alcune anche storiche), scippi, furti nelle abitazioni, soprusi spiccioli di ogni tipo, meretricio di tutto e di tutti. Nessuna garanzia per i più deboli. Per le donne, i bambini, gli anziani. Costretti a vivere in una giungla (anche malamente asfaltata), dove la più normale delle attività diviene una impresa. Dove anche fare la spesa al mercato (quella “Fera” così romanticamente descritta nelle guide turistiche di tutto il mondo) diviene un incubo, fra scippatori, borseggiatori, molestatori, abusivi, prepotenti di ogni risma.
I catanesi che leggono le cronache palermitane su “Live Sicilia” non si stupiscono affatto del livello di violenza diffusa che impera nella “capitale”. Qui è lo stesso. Magari non peggio. Ma lo stesso sicuramente sì.
E allora questa campagna per le elezioni regionali di fine ottobre viene vista in maniera strana. A distanza. In sospensione. Come l’immagine ondeggiante di un inganno visivo nel deserto (la parola “miraggio” è troppo poetica, meglio non usarla in tale contesto). La fibrillazione dei militanti dei vari partiti “in gara” viene avvertita dai più come il fastidioso tentativo di garantirsi (o, meglio, di garantire ai propri referenti politici) ancora per qualche altro anno il “trono” di quel “regno dei morti” che è divenuta la Sicilia.
Riuscirà almeno uno dei candidati a Palazzo d’Orléans a scuotere dal torpore i catanesi? Riuscirà (uno, almeno uno, quale che sia) a ridare un minimo di speranza a chi cerca un lavoro da anni e sinora ha solo dovuto ingoiare rifiuti e amarezze? Perché, alfine, è tutta qui la questione, è sempre la solita l’arsura dei siciliani: il lavoro come diritto. Non come “favore a tempo” calato dall’alto. Lavoro. Che vuol dire dignità e libertà. Per i catanesi, per i palermitani, per i siciliani tutti.