Catania, suicida in cella: "Non doveva finire in carcere" - Live Sicilia

Il catanese suicida in cella: “Non doveva finire in un carcere”

Le ultime ore del 44enne con disturbi psichiatrici morto nel carcere di Caltagirone

CATANIA – Alla fine perdono tutti. Perde un uomo con problemi psichici, lasciato da solo nella cella in cui decide di suicidarsi una settimana dopo aver rubato 180 euro e un telefonino. Ma perde anche l’amministrazione penitenziaria, che con la morte per impiccagione di Simone Melardi, catanese di 44 anni, nella casa circondariale di Caltagirone, arriva a 55 morti per suicidio su tutto il territorio nazionale dall’inizio dell’anno. Un’impennata rispetto all’anno scorso, quando i suicidi in carcere furono 57 nei 12 mesi. Il caso di una persona che in carcere non avrebbe mai dovuto entrarci.

L’arresto e la detenzione

La storia di Melardi nel sistema carcerario è un battito di ciglia, nel contesto dei tempi e dei modi pachidermici in cui è abituata a muoversi la giustizia penale. Il 18 di agosto, giovedì, il 44enne è accusato di furto all’interno del Teatro Massimo Bellini di Catania. Bottino: 180 euro, un portafogli e un cellulare, subito restituiti. Venerdì scorso, il 19, l’uomo è processato per direttissima, con la convalida per l’arresto.

“Lo hanno mandato al carcere di Gela perché a piazza Lanza non c’era posto” racconta Rita Lucia Faro, avvocato di Melardi. “Il giorno successivo, sabato 20, ho telefonato a Gela per capire come organizzarsi per le visite dei familiari, che si stavano già organizzando, e spedire dei pacchi”. Poi Melardi è stato spostato alla casa circondariale di Caltagirone: Faro presume che sia avvenuto lunedì, “ma lo spostamento è avvenuto senza che mi avvertissero”.

La diagnosi

Melardi entra in carcere con una diagnosi di psicosi Nas (non altrimenti specificata) fatta dallo psichiatra che lo ha in cura, e per questo l’avvocato Faro trascorre la settimana a preparare i documenti per spostarlo in una struttura alternativa. “Ho lavorato a stretto contatto con lo psichiatra di Melardi – racconta Faro – e i documenti sulla sua condizione psichica erano noti anche al carcere, tanto che era in regime di sorveglianza. Durante i primi giorni c’era anche un piantone, che poi, mi è stato riferito, è stato ritenuto non necessario”.

La speranza era di farlo uscire prima possibile per spostarlo in una comunità terapeutica assistita, ma giovedì 25 agosto alle 3 del mattino arriva la telefonata dal carcere di Caltagirone: l’uomo si è ucciso, impiccandosi nella sua cella. L’avvocato Faro ha annunciato subito un esposto: “Vogliamo capire se ci siano state delle negligenze – dice – e come è stato possibile che Melardi abbia potuto avere il tempo e l’opportunità per fare il suo gesto”.

Caltagirone

Lo scenario delle ultime ore di vita di Simone Melardi è la casa circondariale di Caltagirone. In cui nell’ultimo anno sono successi diversi fatti arrivati anche sui giornali, come l’omicidio di un uomo, da parte del suo compagno di cella, scoperto dopo 48 ore dall’uccisione. Chi ci è entrato assicura che si tratta di un carcere assolutamente nella media del sistema penitenziario italiano, a tratti anche migliore. Costruita nel 2002, la struttura non è antiquata anche se ha bisogno di continui lavori di manutenzione: il blocco 50 soffre di continue infiltrazioni. Al suo interno sono detenute 370 persone su 541 posti regolamentari (anche se 64 risultano non disponibili, a causa dei lavori), e si svolgono molte attività “trattamentali”, ovvero a sostegno del recupero dei detenuti: corsi di formazione, attività. Ultimo, ma non meno importante, chi ci è stato racconta che la direzione è molto sensibile alle esigenze dei detenuti e prende molto a cuore la vicenda di ciascuno.

Come ogni carcere, anche Caltagirone ha i suoi problemi e i suoi limiti. La struttura, dei cui problemi di manutenzione si è detto, è anche lontana dal centro abitato, per cui non è facile per i familiari raggiungerla. Tra i detenuti una quota rilevante, 146, presenta problemi psichiatrici, come si legge sul sito di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e all’interno del carcere non c’è una struttura psichiatrica. In questo scenario, il personale di Polizia penitenziaria al suo interno è di 171 agenti effettivi a fronte di 201 previsti: persone che devono affrontare turni straordinari e stress da lavoro, alla fine di un periodo, quello del Covid, in cui proprio gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria hanno dovuto gestire un’ulteriore pressione, continuamente denunciata dalle associazioni di categoria.

Le alternative

Il problema in altre parole non è il carcere di Caltagirone in sè, ma il sistema complessivo in cui si inserisce. A suggerirlo è Pino Apprendi, di Antigone Sicilia: “Persone come Melardi non devono proprio entrare in un carcere – dice – hanno bisogno di cure, di assistenza particolare, e andrebbero fornite subito alternative come le case famiglia, le Rems (Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza) e altri percorsi. Il problema è strutturale, serve una riforma per non portare in carcere gente che non deve assolutamente entrarci”.

Il problema strutturale, in un sistema povero di alternative, finisce poi per scaricarsi nel rapporto tra poliziotti e detenuti: “Non si può – dice ancora Apprendi – scaricare la responsabilità di affrontare problemi così complessi a un poliziotto, che è l’ultimo anello della catena del ministero della giustizia e che non può occuparsene. Casi come quello di Melardi non dovrebbero proprio stare in un carcere, dovrebbero essere altri tipi di professionalità a gestirli”.


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