Cattura e trasferimento all'Asinara | "Questa non me la dovevano fare" - Live Sicilia

Cattura e trasferimento all’Asinara | “Questa non me la dovevano fare”

Totò Riina

Il ricordo della cattura e il volo in elicottero sull'isola sarda, nel carcere più temuto dai boss.

SASSARI – “Questa proprio non me la dovevano fare”. Secondo le cronache dell’epoca, Totò Riina reagì così quando realizzò di essere finito all’Asinara. Era la vigilia di Natale del 1993, il “capo dei capi” era stato catturato all’inizio di quell’anno. Dalla sfarzosa dimora palermitana si ritrovò catapultato nel bunker appena ristrutturato per lui. A Cala d’Oliva, oggi meta turistica dedicata alla memoria di un’epoca che l’istituzione del Parco non intende cancellare ma che non riesce neanche a superare, Totò Riina restò dal dicembre del 1993 al luglio del 1997. Ci arrivò a bordo di un elicottero dei carabinieri, poco dopo le 10, con appresso pochi effetti personali in una busta di plastica. Quando il mulinello di sabbia prodotto dalle eliche gli permise di aprire gli occhi, capì di essere finito nel carcere che i mafiosi temevano di più e si mise le mani in testa.

Col suo trasferimento all’Asinara, caldeggiato anche dall’allora presidente della commissione Antimafia, Luciano Violante, si volevano azzerare le complicità che l’avevano aiutato a governare la “cupola” anche dopo l’arresto. Il 20 novembre Riina venne prelevato dal carcere palermitano dell’Ucciardone. Un aereo dell’Aeronautica militare lo condusse a Ciampino. Nel carcere romano di Rebibbia venne sgomberato un braccio per lasciargli spazio per una notte. La mattina dopo lo prelevò un elicottero dell’Arma che lo riportò a Ciampino, da dove partì per Alghero. Qui due elicotteri decollarono verso l’Asinara: in uno c’era Riina. Nell’isola Riina convisse con sé stesso e la sua coscienza, al buio, in pochi metri quadrati. Era sepolto vivo, senza contatti con l’esterno. A controllarne ogni minimo movimento, se possibile anche i pensieri, c’era il Nucleo interforze di vigilanza dell’Asinara: trenta guardie sarde, che per non farsi capire da lui parlavano “in limba”.

La permanenza nella cosiddetta “Cayenna sarda” fu il periodo più duro della sua detenzione. Quando ci arrivò, la sezione speciale di Fornelli ospitava altri 67 mafiosi in regime di 41 bis. Passò quasi un anno tra la sua cattura e il suo sbarco nell’isola: data la sua pericolosità e il suo potere, lo Stato prese ulteriori precauzioni e ristrutturò apposta per lui, a tempo di record, il bunker. “U curtu”, il boss delle stragi, all’Asinara non si fidava di nessuno. Gli portava il pranzo il direttore del carcere, Gianfranco Pala, all’interno di una ventiquattrore. Riso, pastasciutta, fettine e pollo, ogni tanto del vino. Prendeva delle medicine per il mal di testa, per non correre rischi pretendeva che il medico aprisse le pillole e lasciasse il contenuto sul comodino, accanto ai libri dedicati alla vita di Sant’Alfonso de Liguori, di Sant’Antonio da Padova e di Santa Rita da Cascia. Anche andare a messa era troppo pericoloso. Lo spostavano solo per i processi di Palermo, poi tornava in esilio, dove rimase finché l’Asinara non si trasformò: da carcere a Parco naturale.

La seconda settimana di agosto del 1985, sette anni prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui vennero assassinati, anche i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono trasferiti d’urgenza per motivi di sicurezza all’Asinara con le famiglie. Per loro il posto più sicuro era quella prigione. La stessa che dopo la loro morte ha ospitato colui che è ritenuto il responsabile delle due stragi del 1992. Fu lì che prepararono la trama della la sentenza-ordinanza “Abbate Giovanni + 706”: il maxi processo a Cosa Nostra. Forse fu anche per questo che Totò Riina, “u curtu”, il “boss delle stragi”, il “capo dei capi”, quando arrivò a Cala d’Oliva esclamò: “Questa non me la dovevano fare”. (ANSA).


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