20 Luglio 1969, notte fonda. Anche se ero solo un ragazzino di 12 anni, capivo benissimo che non potevo mancare a un evento storico che stava per materializzarsi sullo schermo dell’unico televisore disponibile in un’isola di Vulcano ancora priva della corrente elettrica. Eravamo raccolti da Don Piricuddu, storica pizzeria dell’isola dotata di un gruppo elettrogeno e capace sotto i suoi archi di ospitarci tutti, i pochi turisti e i pochissimi residenti. Seduto per terra, ascoltavo Tito Stagno e Ruggero Orlando che litigavano come comari sul momento esatto del touch-down del modulo lunare per riconciliarsi all’applauso del pubblico in studio quando fu chiaro che quella notte, minuto più minuto meno, una macchina costruita dall’Uomo ne aveva portato due a toccare la luna. Già allora pensai alla malinconia del povero Collins che, dopo esser giunto lassù, se ne stava in attesa dentro l’Apollo 11, mentre gli altri due si preparavano ai quattro passi più importanti della storia. E a quella di Aldrin, secondo per sempre.
E poi finalmente l’immagine della scaletta ripresa di lato e percorsa in discesa da piedi fortunati che cautamente si avviavano a calpestare quel disco fatato che, fin dai primordi del genere umano, aveva ispirato poeti e musicisti, innamorati e marinai, scienziati e ciarlatani. Dopo l’ultimo gradino vedemmo i guanti serrati sul corrimano, quei saltelli sul posto e ascoltammo quella frase, consegnata alla Storia dalle labbra di Neil A. Armstrong da Wakaponeta, Ohio: “That’s one small step for a man, a giant leap for mankind”. Mi sono sempre chiesto come un essere umano nel momento topico di quella missione storica abbia potuto avere il sangue freddo per pensare a parole così semplici ma così efficaci nell’esprimere sinteticamente la solennità del momento. Forse davvero, come poi disse in seguito, ci aveva pensato a lungo insieme alla moglie nei mesi di preparazione alla missione. Oppure, più probabilmente, erano state scelte tra decine di frasi proposte alla NASA dagli “speech-writer”. Di certo, quegli omini Michelin che ballonzolano leggeri e quasi divertiti mentre una bandiera a stelle e strisce garrisce innaturalmente sullo sfondo resteranno una delle immagini più importanti dell’intera epopea del genere umano.
Con l’entusiasmo di un ragazzo, ho vissuto quasi per intero l’epoca delle esplorazioni spaziali, tra conquiste e tragedie reali e sfiorate, in un’epoca in cui i governi delle Nazioni-guida investivano, oltre che in armi, anche in ricerca. E molti degli oggetti che hanno migliorato la nostra vita di tutti i giorni sono frutto del formidabile progresso tecnologico innescato dalla sfida spaziale. Sempre più piccolo, sempre più potente, sempre più resistente, sempre più sicuro. Ma in cima a tutto questo tumulto di tecnologia c’era sempre l’Uomo, essere creato da Dio a Sua immagine e somiglianza. Con la sua audacia e la sua intelligenza, ma anche con le sue debolezze e le sue malattie. E forse non è un caso che ad uccidere qualche giorno fa Neil A. Armstrong da Wakaponeta, Ohio sia stato un problema cardiaco. Come se la luna, alleata e aguzzina di tutti i cuori infranti, abbia richiesto in sacrificio il cuore dell’uomo che per primo la conquistò. E mi spiace che il Presidente Obama, in un impeto di provincialismo che mal s’addice all’uomo più potente del pianeta, abbia definito Neil A. Armstrong “A great American hero”. Perché uno come Lui, anche se nato a Wakaponeta, Ohio, appartiene all’umanità intera. Almeno fino a quando un essere umano, volgendo lo sguardo verso il cielo, sospirerà di fronte alla bellezza della luna.
Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale? Silenziosa luna?