Oggi in Sicilia tre avvenimenti stanno “cannibalizzando”, occultandoli mediaticamente, tre fatti importanti: le polemiche sulla vera e autentica diversità dell’antimafia distolgono da un dibattito più concreto sui programmi dei movimenti per le elezioni europee; la lotta acerrima all’interno dei vari partiti tra le loro “correnti”, in particolar modo nell’area della sinistra, rende indistinte e indistinguibili le identità dei candidati; e, infine, la temporanea trasformazione del Presidente della Regione in capo-elettore di un suo assessore, con un impegno totale profuso nel procurargli voti, anche attraverso circuiti clientelari, mette in secondo piano una realtà drammatica: il mancato pagamento degli stipendi regionali in questo mese e, con molta probabilità, nel prossimo. Concentriamoci su questa terza questione.
Offriamo subito solidarietà a tutti quei soggetti che vengono privati, senza che alcuno spieghi loro bene le cause, delle certezze che regolano i ritmi di vita: la correlazione tra lavoro e stipendio, la corresponsione in tempi ben definiti del salario, la quantificazione attesa di quest’ultimo pari a quella effettivamente percepita. Sappiamo tutti come, nel quotidiano, la determinazione e la programmazione della spesa avvengono su calcoli ben precisi di entrate ed uscite. Previste le prime, scontate in molti casi le seconde. Nel senso che prevedono la soddisfazione di obblighi non rinviabili: affitti, rate di mutuo, adempimenti fiscali, tasse di vario tipo.
Come si fronteggiano questi casi di disallineamento tra mancate entrate e indifferibili uscite? Ripercorriamo quanto ci suggerisce, da un lato, la teoria economica, dall’altro l’esperienza. Intanto supplisce, se esiste, un reddito familiare allargato. Si può attingere, per chi li ha accumulati, ai risparmi. Qualcuno conta su entrate parallele da doppio lavoro. Ma possono registrarsi, tanto più in famiglie numerose, ricorsi all’usura, al monte dei pegni, a prestiti comunque mortificanti.
Segniamo altri passaggi dell’analisi. La riduzione nei consumi provoca crisi nella filiera del commercio e, di rimbalzo, nella rete produttiva che la alimenta. In particolare, la sospensione degli stipendi dovrebbe penalizzare, proporzionalmente, i percettori di reddito più bassi, ad esempio le categorie dei precari, classificati nelle statistiche ufficiali come appartenenti alla classe della povertà relativa ed assoluta. E, per una certa quota, anche a quella dell’indigenza.
Dovremmo attenderci tre fenomeni: proteste sindacali, mobilitazioni di piazza, atti individuali eclatanti. Con intervento di soggetti sensibili al problema: la Chiesa, le Associazioni di volontariato, le rappresentanze dell’economia. Al momento, invece, non si intravedono reazioni. Perché? Intanto, forse, non c’è sufficiente informazione sui profili della questione e si nutre fiducia nell’immancabile leggina. Anche se proprio l’approssimarsi di una competizione elettorale avrebbe dovuto già farla varare. E’ possibile poi che nel complesso si possa fronteggiare il “salto” di stipendio contando su una “solidarietà” di vicolo che magari ignoriamo nelle sue potenzialità.
Terza ipotesi, con una premessa. Probabilmente non esiste una forma unica di sofferenza di fronte ai mancati stipendi. Piuttosto diverse forme di adattamento e di arrangiamento, tanto differenti che non creano blocchi sociali unicamente proiettati verso la mobilitazione politica. Pensiamo all’estensione del lavoro sommerso, del lavoro occasionale, della seconda occupazione, dell’evasione fiscale, dell’economia “fai da te”, delle residenze di comodo per ottenere l’assegno sociale. C’è una prova inconfutabile di queste osservazioni. Come avrebbero potuto sopravvivere in questi anni i cosiddetti ex-ASU (seimila circa) con un sussidio che non supera i 600 euro al mese?
E siamo al punto cruciale. Nelle famiglie, oltre ai componenti “stipendiati”, quanti “finti” poveri esistono? Qualcuno ha improvvisato conteggi (S. Palazzolo, La Repubblica, 13 maggio 2014) che offrono risultati sconcertanti. Nell’ultimo anno tra indebiti contributi a sostegno del reddito minimo, esenzioni per le pensioni di invalidità, e le tasse universitarie, illegittime esenzioni per i ticket sanitari e buoni libro, “finti” malati e “finti” vivi, sconti non dovuti per tariffe di luce e gas, sono state denunziate 2157 persone con una truffa complessiva di 13 milioni di euro. Non c’è alcun moralismo nel mettere in risalto questo profilo del problema. Semmai, il disagio di una corresponsabilità morale (da condividere con tutta la politica siciliana, i sindacati, l’inerte società civile) per aver creato le basi di questa distorsione, per non averla mai voluta rimuovere, per viverla come la grandine: un evento dannoso contro il quale non si può fare nulla.
Resta il fatto che questa distorsione tra status di lavoro e reddito crea fenomeni di corruzione, filiere di padrinato, occasioni per infiltrazioni di organizzazioni mafiose nel mercato del lavoro. Avvelena i pozzi dell’economia siciliana. Oggi, almeno stando alle cifre ufficiali, paurosamente a secco.