"Imbecilli" del cartellino? | Servono i concorsi interni - Live Sicilia

“Imbecilli” del cartellino? | Servono i concorsi interni

Si chiama meritocrazia, ottimizzazione, termini sconosciuti nella pubblica amministrazione. 

SEMAFORO RUSSO
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4 min di lettura

L’ennesimo episodio di assenteismo, impiegati di una amministrazione centrale regionale beccati a commettere reati – ove accertati nelle sedi giudiziarie competenti – con il giochetto dei cartellini e degli accessi abusivi al canale informatico di rilevazione delle presenze. Puntuali a palate i commenti che mirano a sparare nel mucchio, a criminalizzare un’intera categoria senza, però, offrire un contributo concreto alla riflessione e, soprattutto, al cambiamento delle cose.

I cosiddetti “furbetti del cartellino” – che con i controlli delle forze dell’ordine su input della magistratura oggi per fortuna ricorrenti meglio chiamerei gli “imbecilli del cartellino” – vanno certamente licenziati “senza se e senza ma” appena condannati definitivamente (ci vogliono al riguardo disposizioni legislative esplicite) tanto per essere chiari e netti. Non si scherza con il denaro della collettività, non si “babbìa” con la disoccupazione alle stelle e i nostri figli costretti a emigrare.

Ma al di là dei reati per cui vige la responsabilità personale c’è un tema da tempo sul tappeto: rendere in Sicilia la Pubblica Amministrazione un pilastro dello sviluppo socio- economico della regione, tra le ultime in Europa, e dei siciliani. Per raggiungere l’obiettivo si deve partire dalla qualità del personale, dalle risorse umane, il resto viene dopo.

C’è un solo modo perché gli uffici pubblici siano davvero un luogo in cui i dipendenti – a parte i controlli e l’attuazione di nuove forme di lavoro oltre l’elemento neutro della presenza fisica – possono esprimere al massimo le proprie potenzialità a servizio della comunità: selezionando e promuovendo con concorsi interni – condotti da commissioni esterne e con scritti e orali – i migliori. Selezionati, promossi e poi costantemente aggiornati, esattamente come avviene nelle grandi imprese private.

Le più importanti aziende sono tali perché investono cospicue somme sul personale e sull’innovazione dei processi produttivi. Inoltre, al contrario, per chi demerita – a parte la commissione di reati specifici che va sanzionata, ripeto, con il licenziamento – deve essere previsto il declassamento alla qualifica inferiore, compresi i dirigenti. Ciò per evitare che dipendenti con titoli e professionalità nel frattempo acquisiti e dipendenti assolutamente in regola con le presenze ma dedicati meccanicamente all’ordinario vengano retribuiti alla medesima maniera.

Si chiama meritocrazia, ottimizzazione del servizio, termini sconosciuti nella pubblica amministrazione. Il problema è che vige un sistema bloccato – complice un impianto normativo da modificare (vedi rapporto di pubblico impiego) e che ha mostrato le sue ambiguità, in particolare, sul punto della fittizia (nei fatti) separazione tra potere politico d’indirizzo e quello burocratico di gestione – in cui tutto sembra cristallizzato, immobile, senza un dinamico adeguamento al mondo che cambia velocemente.

In realtà il potere politico resta tendenzialmente invadente, legato a vecchie e partigiane logiche di potere, mentre la burocrazia rischia di apparire asservita ai piani alti del Palazzo incidendo negativamente sulla qualità del risultato finale: il servizio ai cittadini. Le qualifiche di partenza, per tornare alla questione, non dovrebbero essere considerate un tabù se non si è in grado di dimostrare di poter permanere nella qualifica d’entrata. Se la possibilità di progredire previa rigorosa selezione si chiama diritto alla carriera – in atto clamorosamente negato – l’eventualità opposta di potere retrocedere – attraverso verifiche periodiche – si chiama giustizia perequativa perché mira a evitare che due dipendenti di uguale qualifica ma con capacità e professionalità non assimilabili godano del medesimo trattamento economico e giuridico fino alla pensione; una condizione, questa del livellamento generale, fortemente demotivante per i più attivi.

Tale ragionamento non può essere limitato al comparto non dirigenziale ma pure a quello dirigenziale. Se un dirigente si rivela incapace e inadeguato alla funzione non si capisce perché debba essere pagato da dirigente. Ecco cosa ricavare dalla filosofia privatistica del lavoro, lasciando invece nella dimensione pubblicistica ciò che riguarda i doveri del dipendente dal punto di vista penale, amministrativo e contabile nel quadro dei principi di trasparenza, efficacia, efficienza ed economicità dell’attività amministrativa.

La prima preoccupazione di un governo dovrebbe essere quella di curare attentamente la macchina amministrativa predisponendo strumenti premiali e punitivi che diano una scossa positiva al complesso motivazionale del singolo impiegato o funzionario. Non c’è niente di peggio della sensazione di essere considerato un numero, del percepirsi irrilevante, bravo o fannullone è uguale, di non avere alcuna prospettiva di avanzamento dinanzi a sé. Non si vive di solo pane, seppure benedetto. Così non va.

Le chiacchiere da caffè, l’invocazione della ghigliottina e gli “spettacolari” provvedimenti anti-assenteismo, armamentario mediatico tipico dei “dopo blitz”, non solo non servono ma regolarmente imbrattano l’immagine degli onesti e laboriosi, deprimendoli e mortificandoli.

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