Cutuli, vent'anni dopo: "Ho visto il sangue di Maria Grazia" - Live Sicilia

Cutuli, vent’anni dopo: “Ho visto il sangue di Maria Grazia”

Fausto Biloslavo, reporter di guerra de Il Giornale, è stato il primo ad arrivare sul posto dell'agguato
IL MALEDETTO 19 NOVEMBRE
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Vent’anni esatti e una domanda che è più forte di prima: a cosa è servito il sacrificio di Maria Grazia Cutuli, la giornalista di Santa Venerina caduta in Afghanistan assieme ad altri tre colleghi quando si sperava che la presenza dei soldati americani avrebbe liberato il paese dall’oscurantismo talebano? Come sia andata a finire è cronaca recente: uno dei disimpegni meno onorevoli della storia militare a stelle e strisce e una crisi umanitaria i cui effetti sono appena iniziati. Un fallimento su tutta la linea. Vent’anni e la memoria torna ancora lì, a quel sangue sparso sul terreno sabbioso di Surobi. Fausto Biloslavo, reporter di guerra per Il Giornale, è stato il primo ad arrivare sul posto sperando che non fosse successo l’irreparabile, che Maria Grazia Cutuli fosse rimasta soltanto ferita. Invece no. “Non dimenticherò mai quel giorno”, ci dice.

Ce lo può raccontare?

Certo. Sono stato il primo ad arrivare sul luogo dell’agguato. I corpi non c’erano più, erano stati portati via poco prima dai Mujaheddin. A terra c’era il sangue di Maria Grazia e degli altri. Ho capito subito che erano stati uccisi. Accanto c’erano i bossoli degli Ak47, i Kalashnikov russi. Alcuni li ho presi e li ho portati in Italia: successivamente sono serviti al processo quali fonte di prova di ciò che era successo. Ogni 19 novembre mi torna in mente quella scena. Ma mi torna in mente anche il suo volto sorridente. Bella, solare, innamorata della vita e di questo mestiere.

Oltre la Cutuli giornalista, che persona era?

Era una donna eccezionale: dal cuore caldo e dal carattere caldo. Le dicevo sempre che era “strafallaria”, una parola siciliana che mi ha insegnato lei per dire che era un po’ bizzarra.

Che rapporto era il vostro?

Al di là del fatto che io la pensassi in una maniera e lei in un’altra, totalmente all’opposto, eravamo uniti dalla grande passione giornalistica. Diciamo che era una sorta di attrazione fra opposti. L’uno era interessato all’altra sulla scorta proprio di quello che pensavamo della vita, della politica e del mondo. Eravamo molto giovani e lei era una ragazza molto femminile, attraente. Come amava tenersi informata sui Balcani o all’Afganistan, allo stesso modo amava andare a fare shopping o a cena. Insomma, amava la vita. 

Come vi siete conosciuti?

Il nostro rapporto nasce ai tempi del settimanale Epoca, storica testate del gruppo Mondadori. Allora eravamo “compagni di banco”. Subito abbiamo capito che avevamo qualcosa in comune: il cuore del cronista di guerra. Noi volevamo andare a raccontare il lato oscuro dell’umanità. Sia Maria Grazia che il sottoscritto lo abbiamo fatto. Abbiamo lavorato assieme in Bosnia. In Afghanistan, però, non eravamo assieme.

Quale scintilla porta un giornalista a raccontare una zona tanto calda?

Maria Grazia aveva una malefica attrazione per quel lato oscuro del mondo che lei voleva andare a illuminare, testimoniare, scoprire e raccontare. Che poi è la mia stessa passione, quella stessa che da quarant’anni agita la mia professione. 

Se non fosse caduta in guerra, sarebbe stata magari la nuova Oriana Fallaci?

Ho conosciuto la Fallaci in Libano e aveva un carattere pessimo. Non che Maria Grazia non avesse un carattere difficile, ma non penso che sarebbe mai diventata insopportabile come lei. Sarebbe diventata sicuramente brava, una di quelle avrebbe fatto strada. 

In che ambito?

Probabilmente non avrebbe fatto carriera all’interno delle redazioni, perché come me avrebbe continuato a fare giornalismo sul campo. Sarebbe diventata la più grande giornalista di guerra italiana, rimanendo fedele alla sua passione. Non so se potremmo mai paragonarla alla Fallaci, non abbiamo mica la sfera di cristallo. Sarebbe stata sicuramente una MG. 

Che vuole dire?

Beh, era così la chiamavo io. Un nomignolo che non sta soltanto per le sue iniziali: MG è anche il nome in codice di una mitragliatrice usata dall’esercito italiano. Lei era una raffica di notizie. Insomma, non si fermava mai. 

In che rapporti è con la famiglia, vi è mai capitato di parlare di lei?

Ancora oggi sono in contatto con la sorella Donata. Ci siamo sentiti di recente per farle sapere quanto sta succedendo nella scuola dedicata a Maria Grazia non lontano da Herat. Nonostante i talebani, le ragazze e le insegnati continuano ad andare a lezione. Ma non si sa ancora per quanto. Intanto la sua foto è finita dall’ingresso principale all’ufficio del preside, come nascosta.

Per i talebani è un simbolo da abbattere?

Il Regime e alcuni ragazzi che lì si sono diplomati, e che sono diventanti nel frattempo talebani, sanno perfettamente chi è e quale storia rappresenti ancora oggi. È una scuola nel mirino, così come lo è il preside, che non è affatto un filotalebano. Di recente sono andato lì e ho voluto raccontare anche questo lato della storia attuale. Spero sinceramente che la scuola riesca a sopravvivere. 

Il disimpegno forse un po’ troppo sbrigativo degli occidentali dallo scacchiere afgano può essere interpretato alla stregua di un tradimento rispetto a quanti lì hanno lavorato o perso la vita?

È un tradimento in primo luogo verso quegli afgani che hanno creduto in noi e che adesso pensano soltanto a scappare. Non siamo riusciti a portare tutti in salvo, molti sono rimasti indietro, anche tra i nostri collaboratori più stretti. Poi è un tradimento verso tutti coloro che hanno versato sangue e sudore in Afganistan. Penso ai nostri caduti e ai 700 feriti. A cosa è servito questo tributo, che è stato anche economico? A cosa sono serviti i caduti dall’altra parte? Perché ricordiamolo: lì si è combattuto sul serio. A cosa è servito? A niente. 

E rispetto all’eredità di Maria Grazia Cutuli cosa dice?

Che è un tradimento anche nei suoi confronti, rimasta uccisa sul fronte dell’informazione. Non dimentichiamolo, ma quel giorno sono morti anche altri giornalisti. Quelle chiazze di sangue non riesco proprio a dimenticarle. Anche per questo, quelle volte che vengo in Sicilia, mi sta a cuore poter mettere una rosa sulla sua tomba, lì al cimitero di Santa Venerina.


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