PALERMO – “Non ti preoccupare, che ora quando niescio io, me la vedo io”, diceva Giuseppe Dainotti a Salvatore Bonomolo. Solo che quando Dainotti uscì dal carcere trovò libertà e piombo. Lo hanno ammazzato il 23 maggio 2017 in via D’Ossuna e il delitto è ancora irrisolto. Un’indagine, quella della Squadra mobile, che si intreccia con il lavoro dei carabinieri.
Ci sono nuovi episodi che confermano l’esuberanza del boss di Porta Nuova. Un’esuberanza che gli è costata la vita. Sapeva che presto, sfruttando una inaspettata legge poi superata, le porte del carcere per lui si sarebbero aperte dopo venticinque anni. E prometteva a Bonomolo, oggi pentito, che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo. “Siccome io mi lamentavo… che non mi arrivavano i soldi – ha spiegato Bonomolo – allora Dainotti mi disse: ‘Non ti preoccupare, ché ora mando a mio cognato da reuccio, ca c’è iddu”.
Dainotti, dunque, avrebbe chiesto l’intervento di Gregorio Di Giovanni, il reuccio boss di Porta Nuova tornato in carcere nei giorni scorsi con l’accusa di avere fatto parte della Nuova Cupola di Cosa nostra. Niente da fare e soprattutto niente soldi per Bonomolo: “Dopo due mesi io ho ricevuto la risposta e m’ha detto: ‘Un tinni vuole mannare, perché tu tinni isti’, riferendosi alla scelta di Bonomolo di trasferirsi per un lungo periodo in Venezuela.
I soldi sono un chiodo fisso per i detenuti. Molto preoccupato, ad esempio, era “un certo Giovanni Vitale che fa parte pure di Palermo Centro”. Temeva che i rubinetti della solidarietà venissero chiusi dopo l’arresto di Gregorio Di Giovanni e Francesco Arcuri, sorpresi nell’agosto 2015 a Mondello mentre mangiavano arancine al bar. Scattò il fermo perché erano sorvegliati speciali e non potevano frequentare pregiudicati, ma furono poi assolti. Secondo Bonomolo, Vitale era davvero preoccupato: “… era pure detenuto a Sulmona… per omicidio, che ha ammazzato uno all’Olivella, ai tempi… era sopra a me, lui era sopra a me e chiamava a Peppino (Dainotti, ndr)… ora a nuatri come ni finisce: i piccioli?”.
Che Dainotti sie ra messo in testa di riprendersi il posto che il carcere gli aveva tolto emergerebbe dalla vicenda dell’estorsione al bar Manila. Cesare Di Marco, durante la vecchia gestione di Rubens D’Agostino (pure lui in manette, ndr), aveva di fatto acquisito la titolarità del bar ubicato in via Galileo Galilei. Il locale fu sequestrato nel 2012. Di Marco non aveva “rispettato gli accordi verbali” con i soci della Dama sas, società riconducibile a D’Agostino, e intascava l’affitto della gestione affidata a una terza persona, un tunisino. Solo che nessuno era stato informato.
D’Agostino ne parlò con Tommaso Di Giovanni, fratello di Gregorio, poco prima che lo arrestassero di nuovo per scontare un residuo di pena. Di Giovanni lo avrebbe autorizzato a picchiare Di Marco. Quest’ultimo, però, cercò sponda in Salvatore Sorrentino, boss di Pagliarelli, Giuseppe Corona e nello stesso Dainotti.
D’Agostino fu uno dei primi a commentare la morte di Dainotti: “…. si è immischiato uno e questo lo hanno ammazzato… a quello… a Peppino Dainotti… questo è uscito dalla galera … è stato un anno fuori … e l’hanno ammazzato al Papireto… e due settimane prima si era immischiato lui.. per prenderci le difese a questo… però non c’entra niente… con la discussione no”. Lo diceva per allontanare ogni sospetto.
Dainotti non era ben voluto. Eppure nessuno rinunciò ad omaggiare la salma. Ne parlava la moglie di Giuseppe Calcagno, reggente del mandamento, durante i colloqui in carcere: “… lo hai sentito quello che è successo ? … ci siamo andati … no? non dovevo ? … ma perché mi sono informata prima se tutti c’erano … e che dovevo fare ? …”. “Sono cose che fanno male”, commentava Calcagno.