“Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa, non c’é mai stato nulla da trattare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori (nella foto) sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Ciancimino ci disse che lo poteva fare solo se lo avessimo autorizzato a fare i nostri nomi con Cosa Nostra – ha proseguito – ‘Su queste cose si muore’, puntualizzò. In cambio lui voleva che facessimo qualcosa per i suoi processi. Gli dicemmo che non potevamo fare nulla. Erano già in fase avanzata e comunque un nostro intervento a suo favore avrebbe disvelato il suo rapporto con noi”.
Il racconto di De Donno
“I rapporti con Vito Ciancimino nascono nel giugno del 1992 dopo la morte di Falcone. Prima avevo avuto solo qualche incontro con il figlio Massimo nelle aule del Tribunale. In quel periodo, il generale Mori decise una serie di attività investigative per capire cosa stava succedendo. Valutammo di contattare Vito Ciancimino attraverso Massimo. L’idea fu mia e il colonnello Mori mi autorizzò”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Inizialmente, Massimo Ciancimino mi disse ‘ti faccio sapere’ e poi mi comunicò dopo qualche giorno la disponibilità del padre a incontrarmi – ha proseguito -. Mi recai nell’abitazione di Vito Ciancimino a Roma e da lì iniziò il nostro rapporto. Nonostante l’avessi arrestato in precedenza e fossi una delle cause dei suoi problemi giudiziari, Vito Ciancimino non nutriva rancore per me. Mi riconosceva il fatto di avere sempre agito con correttezza”. I primi incontri furono “interlocutori”. “Le prime tre volte, tutte tra le due stragi, furono molto pesanti, complesse e formative – ha raccontato -. Dovevo farmi accettare da Ciancimino, instaurare con lui un dialogo e fare in modo che si fidasse. Già incontrarlo era stato un enorme successo. Inoltre avevamo scelto Ciancimino anche perché in quel periodo era ancora in grado di gestire alcuni appalti. E’ chiaro che dietro questo c’era anche l’intento di giungere all’apoteosi di questo rapporto che sarebbe stata la collaborazione giudiziaria di Ciancimino. Ovviamente gli chiesi di avere elementi utili per capire quello che stava succedendo. Era l’esigenza di tutti decifrare gli accadimenti per indirizzare le indagini”. Gli incontri con Mori cominciarono dopo la strage di via D’Amelio. “Volevo – ha sottolineato De Donno – che Ciancimino parlasse con Mori. Era un capo e doveva parlare con un capo. Tra Mori e Ciancimino ci furono quattro incontri”.
“Non ho mai visto il papello. Anche il contropapello l’ho visto solo sui giornali. In ogni caso, quello che è scritto sul contropapello era quello che era scritto nel libro Le mafie. Si possono confrontare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Secondo il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il padre avrebbe consegnato a De Donno e Mori il papello con le richieste della mafia allo Stato per fermare le stragi. De Donno ha anche puntualizzato che “Vito Ciancimino non ha portato elementi utili alla cattura di Riina. Del resto lui era stato arrestato a dicembre. Le indagini che portarono alla cattura di Riina non furono in nessuna maniera aiutate da Ciancimino. Le piantine che portai a Ciancimino sono state poi acquisite dalle procura di Palermo”.
“Quando Paolo Borsellino ci chiese di riprendere l’indagine ‘mafia e appalti’ pensava di poter arrivare ai mandanti occulti della strage di Falcone. Proprio su questo punto si confrontarono e entrarono in contrasto anche i due pm in aula, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Il riferimento di De Donno ai due pm richiama una fase dell’ inchiesta sulla strage quando la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta seguivano indirizzi diversi. De Donno ha ricordato che Di Matteo sembrava più convinto del fatto che la pista ‘mafia-appalti’ potesse rappresentare un possibile movente dell’attentato di Capaci. Ingroia avrebbe avuto un’opinione meno convinta. L’ex ufficiale, che ha rivendicato spesso il merito di avere condotto un’indagine a largo spettro sulle connessioni tra la mafia e la politica nella gestione degli appalti, ha parlato anche del clima che si respirava al palazzo di giustizia di Palermo dopo la morte di Giovanni Falcone. “In quel periodo – ha detto – i rapporti tra Paolo Borsellino e il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, erano pessimi. Borsellino era assolutamente contrario al modo in cui veniva gestita la Procura. Questo lo sapevano tutti”.
(Fonte ANSA)