"Strangolato e bruciato in un forno" | La verità trentatrè anni dopo - Live Sicilia

“Strangolato e bruciato in un forno” | La verità trentatrè anni dopo

Il forno di fondo De Castro, a Città Giardini

Gli agenti della Dia hanno notificato un avviso di conclusione delle indagini ai boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga. Avrebbero fatto parte del gruppo di mafiosi che uccise la guardia carceraria Calogero Di Bona, inghiottito dalla lupara bianca nel 1979. Il grido di dolore dei figli e i racconti dell'orrore dei collaboratori di giustizia.

l'omicidio Di bona
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PALERMO – Attirato in un tranello, strangolato e bruciato dentro un forno. La morte di Calogero Di Bona è agghiacciante. C’è tutta la crudeltà di cui sono capaci gli uomini di Cosa nostra. Perché sarebbe stata la mafia a condannare a morte il maresciallo delle guardie penitenziarie del carcere Ucciardone.

La recente inchiesta della Dia svela l’ennesimo orrore di Cosa nostra. L’esistenza di un forno che chissa’ quanti corpi ha bruciato. Si trova in un terreno nella zona residenziale di Citta’ Giardini.

Di Bona, già riconosciuto fra le vittime del dovere, scomparve una sera di fine agosto del 1979. Aveva 35 anni e tre figli che non avrebbe visto crescere. Tre decenni dopo un avviso di conclusione delle indagini è stato notificato al capomafia di San Lorenzo, Salvatore Lo Piccolo, e all’ottantenne Salvatore Liga, anziano boss di Partanna Mondello, anche lui detenuto. Sarebbero loro gli autori del macabro delitto. Un risultato a cui si è giunti grazie all’ostinazione dei familiari della vittima, che mai hanno smesso di cercare la verità, al lavoro degli agenti della direzione investigativa antimafia di Palermo e della Procura che ha istituito uno speciale pool sui delitti irrisolti. Ne fanno parte i pubblici ministeri Lia Sava e Francesco del Bene, coordinati dall’aggiunto Vittorio Teresi subentrato a Ignazio De Francisci, oggi avvocato generale.

Sono stati i figli di Di Bona a chiedere la riapertura dell’inchiesta sulla morte del padre. Lo hanno fatto scovando su Internet, per caso, le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo. Dalle pagine del mensile S i familiari lanciarono un invito a cercare fra atti giudiziari ormai polverosi, mentre gli avvocati Oriana ed Emanuele Limuti presentavano un’istanza in Procura. Gli accertamenti sono stati affidati agli agenti della Dia diretti dal capo centro di Palermo, Giuseppe D’Agata.

Mutolo, killer al soldo di Totò Rina e Saro Riccobono, il 7 giugno 1994, chiamò in causa Salvatore Lo Piccolo, che di Riccobono, boss di Partanna Mondello, era stato l’autista. Il capomafia di San Lorenzo, che allora iniziava la sua ascesa criminale, avrebbe avuto un ruolo nella lupara bianca che inghiottì Di Bona, vicecapo dei secondini dell’Ucciardone, come li chiamavano un tempo.

Partiamo dall’inizio di una storia in bianco e nero. Di Bona finisce il turno di lavoro. Ad aspettarlo a casa ci sono la moglie, Rosa Cracchiolo, e i suoi tre figli. Pranzano assieme. Poi, il padre, come sua abitudine, si ritira in camera per riposare. Nel pomeriggio accompagna la famiglia da alcuni parenti. “Passo a prendervi per cena”, dice alla moglie. E così quando la donna non lo vede rientrare si preoccupa. L’ansia diventa angoscia. Lo cercano a Sferracavallo, nei posti che era abituato frequentare. Niente. Di lui non c’è traccia. Alle sei del mattino successivo una pattuglia di militari trova la sua auto, una Fiat 500, parcheggiata in via dei Nebrodi, all’incrocio con via Alcide De Gasperi. Gli sportelli sono aperti. La Procura apre un’inchiesta contro ignoti. Due anni di indagini che a nulla approdano. E così, l’allora giudice istruttore Rocco Chinnici, il 5 marzo del 1981, è costretto a chiudere il caso, pur scrivendo che “la morte deve essere ricercata nei fatti strettamente collegati alla sua attività all’interno della casa circondariale. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, modalità tipicamente mafiose”.

Quali erano i fatti avvenuti all’Ucciardone? Qualche giorno dopo la scomparsa di Di Bona in Procura giunge un esposto firmato da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria che descrivono un carcere dove i mafiosi fanno i loro comodi. Protetti dalla compiacenza di alcuni agenti. Sono anni in cui basta solo nominare un padrino per far tremare le celle. “Carcere di mafia” scrivono gli agenti che fanno un nome e cognome: Michele Micalizzi. Micalizzi, 30 anni, di Pallavicino, non è l’ultimo arrivato. Intanto è genero di Riccobono e sta pure scontando 24 anni per l’omicidio dell’agente Cappiello, ucciso il 2 luglio del 1975. Micalizzi, scrivono gli agenti, sarebbe l’autore del pestaggio di un collega, tale Angiullo, avvenuto all’interno del carcere. Un fatto gravissimo per il quale non è stato stilato neppure un rapporto. Perché? Forse perché Micalizzi attende che si concluda il processo d’appello per omicidio che lo vede imputato e i termini di custodia cautelare stanno per scadere. L’episodio del pestaggio avrebbe potuto “trattenerlo” in carcere. Nei giorni successivi, il sostituto procuratore Giuseppe Prinzivalli ascolta tutti coloro che sono coinvolti nella vicenda. Di Bona compreso. Le indagini, però, si chiudono con un nulla di fatto.

Nel giugno del 1994, nel carcere romano di Rebibbia, si celebra un’udienza del processo a Bruno Contrada, l’ex capo dei servizi segreti successivamente condannato. Il pubblico ministero Antonio Ingroia sta interrogando Gaspare Mutolo che a un certo punto dice: “Io so, nell’81, in un discorso che io c’ho con Riccobono per altri discorsi, di un omicidio di un certo Di Bona, il maresciallo degli agenti di custodia, che Salvatore Lo Piccolo se lo va a prendere”. L’appuntamento, racconta Mutolo, è all’interno di un notissimo ristorante a Sferracavallo.: .

I primi ad accorgersi del verbale di Mutolo sono stati i familiari di Di Bona. Il figlio Giuseppe ha scovato il verbale di Mutolo su internet. Assieme al fratello Ivan affidarono il loro sfogo alle colonne di S: “Se c’è una strada investigativa deve essere percorsa. Il vuoto investigativo, le tenebre come le chiamo io, sono mortificanti. Speriamo che si possa fare chiarezza. Trovare un colpevole per la morte di nostro padre sarebbe per noi un grande aiuto psicologico”. I fratelli Di Bona raccontarono anni difficili segnati dalla diffidenza di “parenti che ci tenevano lontano, ci facevano una colpa della scomparsa di papà. Per anni siamo stati i figghi di Lino, quello che spiriu”. Ed ancora  “di colleghi che si sono via via allontanati, solo in pochi, si contano sulle dita di una mano, ci sono rimasti vicini”. Sono quelli che gli hanno raccontato la storia di “un gentiluomo che indossava la divisa e pretendeva che i colleghi la rispettassero”.

L’anno scorso sono stati sentiti diversi collaboratori di giustizia. Ai magistrati è toccato ascoltare l’agghiacciante ricostruzione di un delitto. “Lo Piccolo Salvatore, uomo d’onore della famiglia di Tommaso Natale, sapendo che Di Bona frequentava un bar ristorante sito nella piazza di Sferracavallo lo avvicinò e lo condusse con un pretesto presso il fondo di Tatuneddu, così era soprannominato Salvatore Liga. Erano presenti, oltre a Liga, Salvatore MIcalizzi e Lo Piccolo, anche Bartolomeo Spatola (anche lui sarebbe stato ammazzato), il fratello Antonino e Rosario Riccobono”. Tutta gente morta tranne Lo Piccolo e Liga.

Gaspare Mutolo ha aggiunto, sempre di recente, i particolari di quella riunione di morte in un casa di fondo De Castro, allo Zen: “Riccobono chiede a Di Bona notizie sulla situazione carceraria ed in particolare sugli autori delle lettere anonime con le quali si insultavano i mafiosi”. Poi, “gli si pose una corda al collo”. Gaetano Grado ha concluso il racconto dell’orrore : “Quando l’indomani a noi andiamo allo Zen mi hanno raccontato solo che era tutto apposto e che il lavoro fatto da Tatuneddu Liga… quando c’era di bisogno di strangolare qualche persona… diciamo che quasi quasi si facevano sempre da Tatuneddu Liga, perché poi lui gli scioglieva nell’acido .. omissis… mi hanno detto che l’hanno messo dentro il forno di Tatuneddu Liga, il forno, un forno dov’è che si .. lui faceva il pane…”.


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