(Alfio Caruso, La Stampa del 23 maggio)
In un Paese che ha avuto i panettoni di Stato, i pelati di Stato, le merendine di Stato, la soap di Regione rappresenta quasi uno sviluppo naturale del clientelismo nella sua forma più pura. Alle prese con un deficit mostruoso, già obbligata a misurarsi con il fallimentare bilancio della Sanità, dove i costi sono inversamente proporzionali alla qualità, la Sicilia ha trovato i milioni – oltre 12 – e la faccia tosta per finanziare il secondo anno di Agrodolce, la fiction ambientata nell’immaginaria Lumera. Quando un anno addietro il suo padre putativo, Giovanni Minoli, la presentò, fu sciorinato l’abituale campionario di promesse, di belle intenzioni; non mancò neppure l’immancabile riferimento alle bellezze artistiche e naturali dell’Isola. In pratica un dépliant turistico per il quale il governo regionale presieduto dal tristissimo Lombardo pagava molto più che per una campagna pubblicitaria: i quasi 13 milioni di euro pari, ufficialmente, al 45% del budget.
In nove mesi di programmazione su Rai 3, collocata alle 20,15, subito dopo i fuochi d’artificio di Blob, l’ascolto di Agrodolce non ha superato l’ambito familiare, cioè quello degli amici e dei parenti delle sei famiglie protagoniste del racconto nel megaset allestito a Termini Imerese (share intorno all’8%, picco di spettatori un milione e 800 mila). Malgrado le cinque puntate settimanali, malgrado l’impegno delle maestranze e degli attori, alzi la mano chi si è accorto di Agrodolce, dello «sguardo nuovo proiettato sulla Sicilia». Anzi, a leggere sui blog le reazioni di chi la guarda o l’ha guardata pare che l’operetta racconti una Sicilia inesistente, legata ai suoi eterni clichè, ben lontana dalla realtà di una terra totalmente asservita dal Pus (Partito unico siciliano). Insomma, niente di paragonabile con i veritieri scenari, ahinoi duri e crudi, spiattellati dallo sceneggiato di Canale 5, Squadra Antimafia, Palermo oggi.
Ma questi sarebbero problemi della Rai, se non ci fossero di mezzo i soldi della Regione, dove una parte non indifferente dei suoi abitanti non sa al mattino che cosa metterà in tavola alla sera. E nel novero dei siciliani bisognosi, alle prese con i consueti affanni occupazionali, sono stati fatti rientrare anche i componenti del cast, che minaccia di trasformarsi in uno dei tanti carrozzoni locali. Purtroppo il nuovo finanziamento di Agrodolce è stato il frutto di una contesa politica. Lo sponsor iniziale era stato Gianfranco Miccichè, quando ancora contava qualcosa. Lombardo aveva sposato la soap con lo spirito del Signore rinascimentale voglioso di avere i propri laudatori. Di conseguenza Cuffaro, che rimane il padrone della Sicilia, si era messo di mezzo attraverso una propria creatura, l’assessore alla Cultura Antonello Antinoro, attualmente sottoposto a indagine per voto di scambio. Antinoro aveva detto che prima di erogare i fondi per la seconda serie voleva vederci chiaro nell’impiego di quelli della prima. Fu accusato di tutto, persino d’insensibilità culturale, benché i diciannove personaggi di Agrodolce non siano in cerca di autore, ne hanno fin troppi, bensì di quattrini: tanti, benedetti e subito.
Alle viste delle elezioni i dubbi di Antinoro si sono tramutati in certezze sull’importanza artistica, sociale, ambientale dell’impresa. Dalle pieghe di un bilancio all’apparenza asfittico sono sbucati i 12.700.000 euro in grado di garantire le avventure, che fin qui hanno appassionato il 2% degli italiani. A Palazzo dei Normanni avranno pensato che comunque Agrodolce vale la spesa: è funzionale al sonno dell’Isola. Così si può provare a seppellire nell’indifferenza il cadavere di Adolfo Parmaliana, lo scienziato di rilevanza mondiale, che lo scorso ottobre scelse il suicidio quale difesa estrema della legalità e del Diritto. Fu il suo no disperato alla Sicilia del Pus e dell’intrigo. Ma tutti presi da Agrodolce, chi poteva avere il tempo di accorgersene?