AGRIGENTO – Doveva essere punito con la morte per i comportamenti ritenuti troppo vivaci nei confronti di alcune donne del paese al di fuori del vincolo matrimoniale. A commissionare l’omicidio, dietro il pagamento di diecimila euro, sarebbe stato il figlio della vittima, indagato nel procedimento ma non raggiunto da misura cautelare. Svolta nelle indagini sul delitto di Pasquale Mangione, 69enne ex dipendente del comune di Raffadali, ucciso con due colpi di pistola il 2 dicembre 2011 nelle campagne di contrada Modaccamo, nell’Agrigentino.
La squadra mobile di Agrigento, guidata dal vicequestore Giovanni Minardi, ha arrestato tre persone che dovranno rispondere adesso di omicidio in concorso: si tratta di Roberto Lampasona, 43 anni di Santa Elisabetta, Angelo D’Antona, 35 anni di Raffadali (catturato nel tardo pomeriggio di oggi all’estero), e Antonino Mangione, 40 anni di Raffadali. Il provvedimento è firmato dal gip del Tribunale di Palermo Antonella Consiglio, che ha accolto la richiesta del pm della Direzione distrettuale antimafia Claudio Camilleri escludendone però l’aggravante mafiosa (tra gli indagati risulta anche il boss di Cosa Nostra Francesco Fragapane).
E sono proprio le dichiarazioni auto ed etero-accusatorie di Antonino Mangione, ritenute credibili e attendibili sebbene non venga considerato un collaboratore di giustizia, a sparigliare le carte in tavola e a fornire agli inquirenti la chiave di volta per le indagini. E’ il maggio 2018 quando Mangione, già noto alle forze dell’ordine in quanto coinvolto in diverse inchieste (anche di mafia), bussa alla porta del pubblico ministero dicendosi preoccupato per la sua vita. Aveva appena messo a verbale le accuse nei confronti del boss di Cosa nostra agrigentina Antonio Massimino (poi sfociate nella maxi operazione Kerkent) ma, evidentemente, aveva tanto altro da dire.
Ed è così che svela ai magistrati di aver organizzato l’omicidio di Pasquale Mangione su richiesta del figlio, noto ristoratore di Raffadali: “Mi chiese di commettere l’omicidio del padre e dopo aver informato Lampasona e DìAntona gli ho detto che ci volevano 10mila euro. Dopo aver accettato ci ha fornito subito 5mila euro e 1.300 euro per comprare la pistola”. Ad eseguire materialmente l’omicidio sarebbero stati Lampasona e DìAntona che, il 2 dicembre 2011, si presentarono al cospetto di Pasquale Mangione a bordo di una moto di grossa cilindrata e un’utilitaria. Due colpi di calibro 7.65 lo hanno ferito ma non ucciso. Il delitto sarebbe stato poi completato con il calcio della pistola da D’Antona. Il cadavere fu ritrovato una settimana dopo completamente dilaniato dall’azione dei cani e dalla pioggia battente di quei giorni.
Proprio su queste ultime circostanze i due presunti killer coltivavano la
speranza di rimanere impuniti, confidando nell’azione degli agenti
naturali in loro aiuto. Così è stato per quasi dieci anni quando gli
inquirenti, con una ben precisa strategia, decidono di giocare a
carte scoperte notificando gli avvisi di garanzia mettendo così a
conoscenza di tutti gli indagati le carte (e le accuse). Da lì comincia
una incessante attività di intercettazione che permette agli
investigatori di sentire in diretta le paure, le considerazioni e i
dettagli direttamente dalla bocca degli stessi indagati. E così, dopo
quasi dieci anni, il cerchio si è chiuso.