Corleone è un gioco dell’oca intrecciato di sensi contrapposti. Per arrivare al traguardo devi provare a togliere la patina di luoghi comuni, quando ti accorgi che sul paese incombe una sorta di maledizione cinematografica, trasformata in business commerciale.
Un bar della piazza reca sul muro le immagini del “Padrino”. La mascella cascante di Marlon Brando regna alla stregua di un simbolo invincibile. Da un’altra parte si magnificano le qualità dell’amaro “Don Corleone”. La prima casella è dunque il bar, reso ombroso dalle inquadrature del film di Coppola.
Il ventisettenne Giuseppe Salvatore Riina, terzo rampollo di Totò è stato scarcerato da qualche giorno per scadenza dei termini ed è tornato qui, a casa. Era in cella per associazione mafiosa ed estorsione. L’uomo che serve caffé in serie lo conosce. Ne apprezza le doti umane. “Sono contento che la sua famiglia l’abbia potuto riabbracciare – dice, tra un espresso e l’altro -. Si comporta da vero signore. Non vuole mai offerto nulla, paga regolarmente. E’ giusto che pure lui possa vivere onestamente, la legge è uguale per tutti”. Un amico, originario di Corleone, aveva avvertito il cronista all’inizio del viaggio: “Vuoi domandare in giro sul figlio di Riina? Lascia perdere, la gente ha paura”. Eppure, Corleone si ribella. Scende in piazza con la faccia pulita dei suoi studenti. Urla il suo no all’intrigo criminale che la vede protagonista, tra realtà e letteratura. Ma accanto alla rivolta, c’è un tanfo distinguibile di vecchiume e di inquietudine.
Seconda casella del gioco dell’oca e primo controsenso. A pochi passi dal bar in cui si fa vedere il figlio del boss c’è un monumento metaforico a coloro che contrastarono il padre. Nel locale commissariato riecheggiano le vicende dell’appuntato Biagio Melita e del commissario Angelo Mangano. L’uno riconobbe Totò Riina latitante, poi, con l’altro, arrestò, nel cuore di una notte indimenticabile, il celebre Luciano Liggio. Una fotografia immortala l’evento. C’è il mammasantissima dell’epoca con gli occhi spiritati e il bastone, circondato dai poliziotti, sotto il braccio a tenaglia di Mangano. Ha la faccia di uno che è stato svegliato da un brutto sogno e non riesce a cancellarlo dalla mente.
Biagio Melita è morto quasi trent’anni fa per un tumore alla gola. I colleghi anziani narrano che lo contrasse nelle sere passate di guardia, camminando per le strade del paese, battute dal vento gelido. Aveva sempre due pistole addosso: l’arma d’ordinanza e una colt col calcio in madreperla, da sceriffo di Tonbstone più che da appuntato di una sicula questura. Era un investigatore dall’acume impareggiabile e dal fiuto sopraffino. Un segugio di razza. Il 15 dicembre del ’63, alcuni uomini in divisa fermarono un ignoto giovanotto grazie a un posto di blocco. All’esperto sottufficiale bastò un’occhiata in commissariato. “Tu sei Totò Riina”. E il latitante, che poi si sarebbe dato alla macchia, cavallerescamente, abbozzò: “Solo lei poteva riconoscermi”. Quando Melita morì, il figlio era appena un ragazzo. Con memoria paziente e amorevole ha ricostruito la carriera del taciturno genitore, ascoltando il racconto dei suoi compagni di mestiere. Infine, è entrato in polizia. Padre e figlio agganciati alla storia, come Totò e Giuseppe Salvatore. Ma dall’altra parte della barricata.
Il commissario Angelo Mangano è scomparso qualche tempo fa. Aveva ottantasette anni. Una robusta polemica ha diviso polizia e carabinieri sui meriti della cattura di Liggio. Claudia, la vedova, ricorda: “Non c’è nessun dubbio. Fu mio marito ad arrestare il boss, come, peraltro, è stato accertato. Era un onesto servitore della legalità. Io sono andata a Corleone solo una volta quando c’era lui. Sono fuggita via, le dico la verità. Il clima era ostile alle forze dell’ordine. Angelo non parlava mai del suo lavoro in famiglia. Molti particolari li ho appresi dopo la sua morte”.
Terza casella. Antonino Iannazzo, sindaco di Corleone, ha agitato una sorta di esorcismo contro il ritorno di Riina Jr. “Saremmo stati felici se fosse andato a stare da un’altra parte – ha dichiarato – qui la cultura della legalità è ormai alta”. Eppure i vecchietti della piazza non hanno udito un solo scorcio di tanto trambusto: “Il figlio di Riina è tornato? Davvero? – si giustificano stupiti –. Sa, siamo anziani. Non sentiamo bene la televisione e la vista non ci accompagna per la lettura dei giornali”. Ed è tutto un dolente lamentarsi degli acciacchi dell’età, del destino che rende gli anni ciechi e accorcia la luce. In tale atmosfera da romanzo di Sciascia, manca solo qualcuno che, attonito, chieda: “Perché? Hanno sparato?”. Marlon Brando ha vinto?
Dalla piazza comincia una strada che gira e passa per un’altra strada dedicata al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da qui si arriva in via Scorsone, dimora della famiglia Riina. Il passaggio è stretto. Le tapparelle sono abbassate. Non si intravvede traccia di vasi alle finestre. Il silenzio è completo. L’unico segno di vita è un ombrello appoggiato sulla porta. Chi l’ha posato si è difeso da un’acquerugiola insistente, prima dell’ingresso. E’ l’ultima casella del gioco dell’oca.
Se, durante un viaggio da queste parti, chiederete a un corleonese: “Scusi via Scorsone dov’è”?, quello ci penserà un attimo. Poi si batterà la mano sulla fronte e risponderà con un sorriso, come chi giunga alla soluzione di un enigma dopo tanto penare: “Ah, ho capito, lei cerca il figlio di Totò”.
Pubblicato sul numero 4 del mensile S