Pietro Milio, 66 anni, ex senatore radicale, storico difensore di Bruno Contrada e che assisteva anche il generale Mario Mori, è morto. Forse era una profezia oltre che una maniera per vivere con maggiore leggerezza il male da cui era affetto, ma Pietro Milio questa morte l’aveva annunciata a chi scrive. In uno dei tanti giorni passati al palazzo di giustizia di Palermo, dopo il caffè preso al bar, aveva cominciato a parlare del caso di Liliana Ferraro, l’ex direttrice degli Affari penale al ministero della Giustizia nel 1992, che non aveva potuto testimoniare al processo contro il suo assistito Mario Mori per problemi di salute. “Io pure ho il suo stesso problema” aveva detto accennando quel mezzo sorriso che spesso accompagnava i suoi discorsi. “Guarda – diceva estraendo dal taschino interno della giacca una piccola scatola circolare di metallo – cammino con le pillole appresso: se arrivo in tempo a prenderle bene, altrimenti pazienza”. E così è successo. Durante un incontro al Castello Utveggio – che aveva annunciato al termine dell’ultima udienza del processo Mori, scherzando con i giornalisti a proposito delle teorie investigative che attribuiscono a quel posto un ruolo centrale nella strage di via D’Amelio – Milio ha fatto il suo intervento e subito dopo ha avuto un malore, forse un infarto. La pillola è riuscita a prenderla ma, forse, era già troppo tardi per il suo cuore e dopo pochi minuti è morto.
Pietro Milio era cardiopatico ma non aveva rinunciato a svolgere il suo lavoro con passione e trasporto. Memorabili i suoi scontri con la pubblica accusa per difendere i propri assistiti. Astio che rimaneva sempre nelle aule al di fuori delle quali era gentile e garbato. Coinvolto nelle indagini sulla strage di via D’Amelio – furono acquisiti i suoi tabulati telefonici – è sempre stato convinto che molte verità stavano da un’altra parte, nei corridoi della procura di Palermo. Nel processo Mori aveva svelato come il rapporto Mafia-appalti redatto dal Ros aveva ricevuto la richiesta di archiviazione mentre era ancora aperta la camera ardente per Paolo Borsellino, mentre la definitiva archiviazione è avvenuta il 14 agosto 1992. Puntava a dimostrare come Borsellino fosse stato ucciso proprio per quel rapporto del Ros, non per la “trattativa” a cui avrebbe partecipato il suo assistito. Voleva dimostrare come a Vito Ciancimino fosse stata formalizzata un’offerta per collaborare con la giustizia. Ma non ne ha avuto il tempo.