PALERMO – L’inchiesta centra il primo obiettivo. Gli imprenditori mettono mano al portafoglio e saldano il conto con lo Stato. Aurelio Giaccone e i figli Andrea e Alessandra hanno sborsato un milione settecento mila euro all’Agenzia per le Entrate. Soldi necessari per coprire l’evasione fiscale che viene loro contestata.
Lo scorso aprile era scattato il sequestro per equivalente chiesto e ottenuto dal pubblico ministero Claudia Ferrari. Secondo l’accusa, i Giaccone avrebbero “spogliato” il loro patrimonio per evitare che venisse aggredito dall’Erario a cui non avevano pagato le tasse. I tre, impegnati nel settore immobiliare e titolari di una nota rete di negozi di elettrodomestici, sono indagati per riciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Erano finiti sotto sequestro 15 immobili, tra case e negozi, in provincia di Palermo, una società immobiliare e a alcuni conti correnti. Beni che sono stati sbloccati con il pagamento delle tasse.
Secondo i finanzieri, gli imprenditori avrebbero architettato un piano per riciclare i proventi di reati fiscali in precedenza contestati e relativi agli anni dal 2003 al 2006. Già condannato in primo grado per dichiarazione infedele dei redditi, il padre avrebbe trasferito ai figli il denaro per acquistare degli immobili poi rivenduti. Uno stratagemma, sostiene il pm Ferrari, per ripulire i soldi ed evitare che venissero ricondotti all’evasione fiscale. Infine, l’ultimo passaggio tanto sofisticato quanto efficace: per evitare che l’Agenzia delle entrate aggredisse il patrimonio, l’uomo avrebbe trasferito i beni ad un’immobiliare divenuta la “cassaforte di famiglia”. L’immobiliare era un trust, un istituto giuridico di derivazione anglosassone la cui caratteristica è il totale affidamento del patrimonio ad un gestore per una finalità specifica, con la completa perdita da parte dell’originale proprietario di ogni forma di gestione e amministrazione.
Le indagini della Guardia di finanza palermitana, invece, avrebbero dimostrato che l’affidamento era stato solo formale. Il trust sarebbe servita servito solo per aggirare le procedure di riscossione. In verità Aurelio Giaccone avrebbe continuato a gestire e utilizzare “direttamente e autonomamente” i beni conferiti a lui riconducibili e conservati in cassaforte.
Mentre si continua a indagare, l’imprenditore ha firmato un assegno e dato mandato all’amministratore giudiziario, a cui erano stati affidati i beni, di consegnare il denaro all’Agenzia delle Entrate.