Ieri, alle ore 13, l’agenzia Ansa trasmetteva la notizia dell’arresto a Palermo di dodici presunti mafiosi che imponevano a decine di imprenditori e commercianti il pizzo e anche il prezzo di vendita della carne. L’estorsione ha trasferito nelle casse della mafia di Altarello (borgata di Palermo) cinquantamila euro al mese che venivano reinvestiti nel narcotraffico.
Dico subito che la lettura di queste righe appare come uno dei bollettini quotidiani della procura palermitana, molto attiva nella repressione della criminalità mafiosa. In parte è così, anche se quelle righe ci rivelano un fatto inquietante: la capacità della mafia di riproporsi come forza presente in tutti i gangli della società, in grado di «governare» i mercati e di rinnovare i suoi quadri. Gli arrestati, infatti, sono tutti giovani: 21, 25, 30 anni. Il più vecchio ha 39 anni.
Quello della carne è un antico e sempre attivo mercato controllato dalla mafia. Oggi sembra scomparso il reato di «abigeato» con cui veniva rubricato il furto di bestiame, ma ancora nel recente passato era praticato dalla mafia rurale. A questo proposito ricordo che negli Anni 50 la mafia di Mussumeli (provincia di Caltanissetta), che con il suo capo Genco Russo aveva una «giurisdizione» regionale, impiantò nel cuore del feudo un mulino-pastificio e un salumificio. La Sicilia non era certo conosciuta per la mortadella e il salame, ma il salumificio di Genco Russo era attivo perché il bestiame rubato, che però era anche marchiato, veniva macellato e insaccato. Le botteghe di una vasta zona erano obbligate a vendere la mortadella di Mussumeli, anziché quella di Bologna. E negli anni del boom edilizio di Palermo le nuove botteghe, come le vecchie, dei macellai (ricordo che una si chiamava «Boutique della carne») erano in mano alla mafia. Per il riciclaggio furono aperte alcune macellerie anche a Roma.
Si tenga presente che in Sicilia è stata sempre attiva la macellazione clandestina che forniva, e forse fornisce ancora, carne fuori del mercato legale. A leggere la notizia Ansa di ieri sembra che tutto si riproduca e si aggiorni. La cosca di Altobello – ci dice la procura – si riuniva e fissava il prezzo della carne. Quel che non riesce allo Stato, in questo periodo in cui gli alimentari lievitano, a Palermo lo fa la mafia. La quale con una mano preleva dalle casse dei commercianti la sua quota estorta e con l’altra minaccia chi vuole fare concorrenza al macellaio che non ce la fa a tenere aperta la bottega. Il prezzo fissato dalla cosca deve regolare la concorrenza e tenere buoni anche i consumatori. Questo intreccio perverso, spezzato in una zona dalle forze dell’ordine, è certo un successo e fa respirare qualcuno. Ma ci dice anche che la mafia non sarà sradicata se non c’è un mutamento nella società, nella coscienza e nella cultura della gente. Non cambierà nulla se in quei quartieri al potere mafioso non si oppone non solo il carabiniere e il poliziotto, ma una parte della gente che si ritrova collettivamente e non isolatamente. Oggi questo non c’è: non ci sono più i partiti di sinistra che in passato lo facevano, non c’è un’articolazione del sindacato, la stessa Chiesa trova difficoltà a farlo. La sola aggregazione è la «cosca». Chi riflette su questi fenomeni che sono soprattutto politici? Se diamo uno sguardo al «dibattito» in corso, fra i partiti di governo e di opposizione, non stupisce né ciò che succede a Palermo, né ciò che succede a Treviso.
(da La Stampa di venerdì 27 giugno)