MESSINA – Sono due gli elementi che emergono con maggiore forza dall’operazione di oggi che ha portato in carcere dieci persone, accusate di associazione a delinquere e truffa. Una è certamente il coinvolgimento delle mogli di alcuni personaggi noti della politica della siciliana. L’altra, proprio il riferimento ad alcuni “big” della città dello Stretto, del Partito democratico e del Pdl.
L’inchiesta della Procura di Messina sui corsi di formazione professionale della Regione, finanziati anche con fondi dello Stato e dell’Unione europea, è sfociata in una raffica di arresti – sono dieci in tutto – che ha coinvolto, tra gli altri, le mogli di due big della politica messinese, Francantonio Genovese e Giuseppe Buzzanca. Ma non solo. L’inchiesta ruota attorno a tre centri di formazione professionale che operano in provincia di Messina: Lumen, Aram e Ancol. Chiara Schirò, è la moglie del deputato del Pd Francantonio Genovese; Elio Sauta (ai domiciliari), che è un ex consigliere comunale del Pd, è anche il presidente dell’ente Aram, mentre un’altra persona arrestata, Graziella Feliciotto, è sua moglie. Cettina Cannavò è l’ex tesoriere provinciale del Pd messinese.
Ma il filo che lega politici ed enti non è solo “rosso”. Daniela D’Urso, infatti, è la moglie dell’ex sindaco del Pdl Giuseppe Buzzanca. La D’Urso era dipendente dell’Ancol (dove lavorava anche la sorella dell’ex sindaco, Matilde). Melino Capone è l’ex commissario regionale dell’Ancol. I riflettori della magistratura furono accesi sull’ente, per accertare la legittimità dei finanziamenti ottenuti dalla Regione, per 13 milioni e 600mila euro, dal 2006 al 2011. Melino Capone fu ufficialmente commissario dell’ente fino al 2006. Da quel momento in poi, nonostante la carica gli fosse stata revocata, avrebbe proseguito nel ruolo di commissario. Secondo l’accusa, avrebbe anche provveduto a “sistemare” parenti ed amici. Tra questi, il fratello Natale, arrestato anche lui. Melino Capone è stato assessore della giunta di Buzzanca.
Ai destinatari dei provvedimenti di custodia viene contestata l’associazione a delinquere finalizzata al peculato e alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche destinate a progetti formativi.
Le indagini, dirette dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita e dai pm Camillo Falvo, Fabrizio Monaco ed Antonio Carchietti, avrebbero fatto emergere l’esistenza di un sistema grazie al quale venivano gonfiati i prezzi delle prestazioni di servizio o degli acquisti di beni necessari per l’attività degli enti. In particolare gli inquirenti avrebbero accertato prestazioni totalmente simulate e sovrafatturazione delle spese di gestione. Grazie a questi artifici, i rappresentanti legali dei centri di formazione, attraverso la compiacenza dei titolari di alcune società con i quali erano legati da vincoli di parentela o di fiducia, riuscivano – secondo gli inquirenti – a documentare spese a prezzi notevolmente superiori a quelli di mercato. I centri in questione, che hanno come scopo l’organizzazione – senza fini di lucro – di corsi formativi, avrebbero così ottenuto finanziamenti per importi di gran lunga superiori ai costi effettivamente sostenuti.