'Quattro colpi di legno' per Fragalà| Così ammazzarono il penalista - Live Sicilia

‘Quattro colpi di legno’ per Fragalà| Così ammazzarono il penalista

Un frame dei video

Ecco come si è arrivati ai nuovi arresti. Un avvertimento per l'intera classe forense. VIDEO

PALERMO – Era già stato quasi tutto ricostruito nella prima inchiesta. Quella che, però, non aveva retto al vaglio dei giudici, tanto che la stessa Procura aveva chiesto l’archiviazione.

Ma la pista mafiosa per il barbaro omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà era rimasta evidente e affondava le radici nel popolare rione del Borgo Vecchio, mandamento mafioso di Porta Nuova. Poi, sono sono arrivate le dichiarazioni del neo pentito Francesco Chiarello a fare riaprire l’indagine. Le microspie hanno ripreso a registrare le conversazioni dei protagonisti. Nei nastri magnetici è rimasta impressa persino una confessione in diretta. E stamani sono state eseguite sei ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip Fernando Sestito su richiesta del procuratore Francesco Lo Voi e dei sostituti Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco.

È stato Chiarello, uomo del pizzo, a inguaiare i suoi “amici”. Per prima cosa ha raccontato della riunione a casa sua nella quale Francesco Arcuri “ci dice che ci servono quattro persone a Salvatore Ingrassia perché ci amu a dare quattro colpi di legno a una persona, perché si deve fare entro stasera, se non Gregorio fa u pazzu”. Gregorio è Gregorio Di Giovanni, allora capo mandamento di Porta Nuova. Le sole dichiarazioni di Chiarello non sono sufficienti per l’incriminazione di Di Giovanni.

L’epilogo fu il pestaggio mortale. La sera in cui avvenne lì’aggressione Francesco Castronovo, colui che si accanì con un bastone sul povero Fragalà, andò a casa di Chiarello. Il collaboratore ha tentato fino alla fine di lasciarlo fuori dalle sue dichiarazioni. Sono amici fraterni e non voleva dare un dispiacere alla madre di Castronovo che il pentito considera una “seconda mamma”. Chiarello aspettava con la moglie l’arrivo di Castronovo per la cena: “Aveva il giubbotto sporco di sangue, una camicia celeste, un jeans sporchi di sangue”. Poi, si spostarono altrove e l’amico ammise le sue colpe: “Di sicuro stu cristianu muori pi comi ci dettumi sia io che Paolo Cocco.

Quel Paolo Cocco che, senza sapere di essere intercettato, confessava alla moglie e ai carabinieri, la sua partecipazione al delitto in una drammatica conversazione. Livesicilia aveva appena pubblicato un articolo sulle novità del delitto Fragalà: “Per il fatto dell’omicidio può essere che poi mi vengono a cercare… che c’ero pure io esce”; “Giura?”; “Giuro”. Ma che cazzo stai dicendo…”; “Il compleanno non lo festeggeremo, ti giuro…”; “Le chiavi possono buttare. Mi hai sconvolta Paolo”.

È dentro Cosa nostra, come ha ricordato il comandante del Nucleo investigativo, Dario Ferrara, che si è continuato a indagare nonostante l’archiviazione delle posizioni di Francesco Arcuri, Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia. Ci sono sempre stati dei punti fermi. “… ma non è che sono stati quelli del Borgo?”, chiedeva Giovanni Di Giacomo. “Sì”, rispondeva senza esitazione il fratello Giuseppe. Era il 19 luglio 2013. I Di Giacomo, nella sala colloqui del carcere di Parma, discutevano dell’omicidio dell’avvocato Fragalà. Il loro è un cognome pesante. Otto mesi dopo quelle parole i killer avrebbero crivellato di colpi Giuseppe in una strada della Zisa, proprio quando aveva raggiunto il punto più alto della sua carriera criminale: era Giuseppe Di Giacomo a guidare la famiglia di Palermo centro. Il fratello Giovanni, invece, è un killer condannato all’ergastolo per avere fatto parte del gruppo di fuoco di Pippò Calò. E ridevano mentre tiravano in ballo altri picciutteddi che potevano avere partecipato al delitto. Il 17 gennaio 2014, dunque in epoca molto più recente, sempre nel carcere di Parma, Giovanni Di Giacomo, stavolta a colloquio non solo con Giuseppe ma anche con l’altro fratello Marcello, tornava a chiedere notizie dei tre arrestati: “… questi picciutteddi che fino hanno fatto?”. Solo che nel passaggio successivo sembrerebbe citare qualcun altro: “Ma con gli altri picciutteddi?”. “A posto, a posto”, tagliava corto Giuseppe, mentre Marcello diceva: “Niente, niente”. Giovanni rilanciava: “… ma pure… ma pure sono immischiati?”. “… no… pure (annuisce col capo, annotano i carabinieri)… lo vedi… non senti niente… belli tranquilli”. E giù risate.

La mafia volle punire uno dei più noti penalisti palermitani. “Era considerato uno sbirro – dice il comandante provinciale dei carabinieri Antonio Di Stasio – I mafiosi non sopportavano che consigliasse ai suoi clienti di fare dichiarazioni nell’ambito dei processi”. E scattò la spedizione punitiva, il 23 febbraio del 2010. Doveva servire da avvertimento per l’intera classe forense. Picchiarono giù duro. Fragalà sopravvisse in coma per alcuni giorni. Poi, il decesso.  

 


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