PALERMO – “Signor giudice, lei mi conosce, ho saldato il mio conto, non fatemene pagare un altro per qualcosa che non fatto. Da quando sono uscito, ho solo lavorato”. È la sintesi del pensiero di Salvatore Gioeli. Ha cercato di convincere il giudice per le indagini preliminari a tirarlo fuori dal carcere. Le sue parole hanno davvero contribuito, assieme all’analisi dei passaggi investigativi, alla sua scarcerazione.
In cella Gioeli, mafioso del clan di Palermo centro, soprannominato Mussolini, c’è rimasto vent’anni dei suoi quarantotto di età. Il 17 agosto 2013 si è lasciato alle spalle il portone del carcere di Roma Rebibbia. Ha finito di scontare la seconda pesante condanna per associazione mafiosa. Neppure il tempo di respirare l’aria della città e otto mesi dopo, ad aprile scorso, è stato raggiunto da un provvedimento di fermo assieme ad altre sette persone. L’inchiesta è quella che avrebbe svelato i piani di morte di Giovanni Di Giacomo pronto a vendicare, secondo l’accusa, l’omicidio del fratello Giuseppe.
Gioeli era uno degli scarcerati eccellenti tornati subito dentro. Proprio come Nunzio Milano e Tommaso Lo Presti. Gioeli è l’unico per cui non ha retto l’impianto accusatorio della Procura. “Ho pagato a caro prezzo – ha spiegato al Gip Piergiorgio Morosini – ma ora non ho fatto nulla. Sono libero da pochi mesi, faccio il cameriere. Mi hanno pure licenziato. È mortificante”. Non c’è niente di mortificante nel servire ai tavoli, è un lavoro onesto come tanti altri, lo ha ripreso il giudice. Di indegno c’era e c’è il fatto di essere appartenuto a Cosa nostra. Un’appartenenza su cui Gioeli non ha aperto bocca. Non ha parlato del suo passato, ma solo del presente. Un presente fatto di “lavoro, lavoro e lavoro”.
Ha cercato di mettere in pratica il corso per cuoco seguito in carcere. Si è dovuto accontentare di un posto da cameriere. Regolarmente assunto, però. Il ristorante, che si trovava in piazza Principe di Camporeale, però, è fallito. E adesso è di nuovo in cerca di occupazione. Se gli daranno il permesso è pronto pure a fare le valigie. Gioeli non avrebbe negato di conoscere molte delle persone che il giudice gli ha citato, ma solo “perché è nato e cresciuto a Ballarò”.
Dopo vent’anni di carcere si è detto stanco. Ha un solo obiettivo, non tonarci più. E per questo si è messo a lavorare sodo e ha rivendicato la sua innocenza. La sua estraneità ad una vicenda “dove rischio dieci anni”. Alla fine è arrivata la scarcerazione. Il giudice ha ritenuto di “non ravvisare la gravità indiziaria” e anche se Gioeli ha precedenti specifici “tuttavia la sua posizione non è assimilabile ai suoi coindagati”.
Nella motivazione della decisione con cui il giudice ha accolto l’istanza di scarcerazione dell’avvocato Debora Speciale si fa riferimento alle intercettazioni in carcere fra i fratelli Giovanni e Giuseppe Di Giacomo. L’ergastolano e l’uomo che sarebbe stato ammazzato poco tempo dopo discutevano del ruolo da affidare a Gioeli una volta scarcerato, ma “non emerge un suo coinvolgimento”. Come dire, i progetti sono rimaste intenzioni nella mente dei fratelli Di Giacomo. A conferma di ciò ci sarebbero le successive intercettazioni in cui Gioeli veniva tacciato di inerzia. “Lagnusia”, la definivano in dialetto siciliano.