Giuseppe Fava diventò etneo come pochi o quasi nessuno

Giuseppe Fava diventò etneo come pochi o quasi nessuno

Sono quarant’anni da quella sera del cinque gennaio del 1984

Si nasce Etnei, oppure si diventa, anche se non è una cosa alla portata di chiunque. Giuseppe Fava diventò Etneo come pochi o quasi nessuno. Sono quarant’anni da quella sera del cinque Gennaio del 1984 e questo tempo passato mi sembra proprio vero. 

L’omicidio di Giuseppe Fava: derubricato

Quando Giuseppe Fava cadde di fronte al Teatro Stabile di Catania, quell’omicidio fu incredibilmente derubricato, in un primo momento e contro ogni forma di verità, alludendo a un movente passionale. Perché Giuseppe Fava non era uno scrittore, un intellettuale, un giornalista, che dirigeva in quel momento l’unica linea del fronte che si contrapponeva al potere nella città di Catania e nel Paese, ma un libertino. Quelle quattro pallottole alla tempia erano il prezzo che un libertino, se capita, può pagare. Sia la Magistratura, sia le Forze dell’Ordine, sia il Sindaco della città, non ebbero dubbi. Essere un libertino, in una città come Catania, può portare a una morte che non merita nemmeno un funerale di Stato.

Era etneo

Giuseppe Fava, invece, proprio perché Etneo, aveva talmente sposato questa condizione geografica e antropologica, da essere un uomo che sa e vuole prendersi la questione. E lui una questione l’aveva presa: la scriveva, ne parlava, la affrontava. Gli Etnei se ne fregano delle dicerie sulla Sicilia, e dentro l’Isola non appartengono né a Occidente e nemmeno a Oriente: si annacano senza alcuna noia nello spazio franco tra l’una e l’altra parte.

Per comprendere la cultura urbana etnea, la sua storia a strati, il suo stato attuale, bisogna capire un aspetto eccezionale di queste città, dentro l’universo culturale siciliano. Un’eccezionalità che disegna l’identità e la maniera con cui nel tempo dei cittadini (i catanesi si definiscono, così, finanche durante la Processione di S. Agata) hanno pensato le loro città costruendole a dispetto di una natura che qui è potente come non mai.

La coscienza civica dormiente

Sono cittadini perché arriva sempre il momento in cui la salvezza si trova in una coscienza civica dormiente, che si solleva nella sua bellezza arcaica per difendersi dalla Grande Signora, da Urlo di Fuoco nel Cielo, da quel fremito rosso che cala verso il mare incurante di ciò che trova. Solo da cittadini si sopravvive, e la bellezza di questo termine accompagna il suo ricordo.

Nulla è privato a Catania. Nulla è domestico. Se la Sicilia è quel luogo dove ogni nucleo familiare è una società, dove la parte privata della vita, con i suoi egoismi, prevale su quella pubblica, a Catania è l’opposto. Gli etnei non sono riservati ma si occupano sempre dei fatti degli altri e del Mondo, come se fossero i propri: prendono la questione. Si prende la questione realmente, però, e non per moda, chiunque non passi la vita facendo d’ogni cosa una questione. A Catania le questioni non si affrontano, non si analizzano.

Si prendono in braccio, o sulle spalle, per portarle di peso, spesso per tutta la vita, fino al posto in cui si è deciso che debbano arrivare. Le questioni si sposano. Alle volte s’ingannano pure se, per stare al loro servizio, è utile seguire strade tortuose. Soprattutto si tramandano, che è la sola forma per non tradirle. Non conta l’argomento della questione. Le ingiustizie non si riducono, nella storia e nel tempo, a quelle che ci toccano negli anni che viviamo. Le ingiustizie hanno un senso della storia così maturo che non si fa in tempo a vederne scomparire una, che un’altra prende subito il suo posto. 

Prendersi la questione

A Giuseppe Fava bastò prendersi una questione e a essa rimanere fedele, per essere fucilato in automobile, in una sera di festa del 1984 a Catania. La sua colpa era di non aver usato le statistiche e i sondaggi nel parlare di mafia, ma di aver usato i nomi e i cognomi dei mafiosi, pur non essendo, lui, né un mafioso, né un magistrato che, ancora adesso, sono le figure con maggiore esperienza e titoli per parlare di Mafia. Non badava alle competenze. Era un giornalista, uno scrittore, un intellettuale e, oggi, non si sarebbe accontentato di registrare i numeri delle crisi che ci capita di vivere. Non si sarebbe accontentato di contare i morti della crisi sanitaria di due anni fa; non si sarebbe accontentato dei dati che gli scienziati sfornano sull’argomento del cambiamento climatico. Era uno che si prendeva la questione, per questo era meglio fucilarlo.

Giuseppe Fava aveva anche lo swing. Trasmetteva entusiasmo. Che cosa è? E’ un ritmo che riesce a trovare un equilibrio dentro una sua mancanza; un ordine dentro un volontario disordine. Ed è proprio questa contraddizione, però, che crea quel tempo, quella distanza tra il battere e il levare, che fa muovere il corpo umano anche senza volontà. Così come il ritmo del cuore è realizzato da un muscolo involontario, il ritmo dello swing è prodotto da una musica involontaria.

E come con il cuore, che è ben altro che un muscolo, anche lo swing è ben altro che un ritmo. Anche se il termine, tradotto, significa dondolare, lo swing è il tragitto che la vita dovrebbe seguire per arrivare alla fine cogliendo la sua finalità, sempre diversa per ognuno di noi. Lo swing ha inizio con la nascita, e dopo una serie di passaggi finisce con la morte: è una traiettoria. Nasciamo con il nostro swing, ma non è detto che ci accorgiamo di averlo e quindi, senza saperlo, rischiamo di perderlo e quando si smarrisce, è come se mancasse il respiro della vita. Giuseppe fava aveva lo swing.

Il funerale

Nella piccola Chiesa di Santa Maria della Guardia, la salma di Giuseppe Fava fu accompagnata da non tante persone e dal rumore delle onde del mare. Sapere cosa ne pensi Dio dei libertini, lascio che lo dica chi crede di saperlo. A me piace pensare che quel giorno di Gennaio, Dio pensò che quello era troppo. Appena seppe dell’arrivo del libertino, per qualche ora lasciò il Suo lavoro (che non so quale possa essere) e si precipitò alla porta della chiesa per accogliere quel cultore appassionato di femmine (forse) e di giustizia (certamente) per rassicurarlo su un fatto preciso.

Corrompere gli esseri umani e insinuargli, dentro l’anima, la vocazione alla giustizia, al senso dell’onore, all’onestà materiale e a quella intellettuale, attraverso amplessi proibiti da una qualsiasi Sacra Scrittura, erano azioni che lui non si era mai sognato di proibire, per non rendere vana quella sua grande idea trasformata in vita. Il male è la rinuncia. Il male è il rifiuto a correre il rischio di compromettersi nell’amore assoluto per un essere umano, per la vita, per le nuvole, per una città, una patria o per un sogno a occhi aperti.

Il male è tradire tutto questo e fare finta di nulla, sperando che una felicità a basso costo sia più consona agli anni a disposizione.

Il delitto passionale

È vero: fu un delitto passionale. Passione vera per la vita, per l’onore di poterla vivere. Fu una Stranezza d’Amore, per la quale, attraverso strade contorte e aggrovigliate, si può anche arrivare a morire in una sera di Gennaio, senza nessuno al proprio fianco, se non un nome indelebile di donna nella mente, l’onore umano da servire e una canzone tra le labbra, canticchiata in attesa che si compia la vita: “Man manu ca passunu i jonna | Sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa | ‘Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra | Mi sentu stranizza d’amuri | L’amuri | E quannu t’ancontru ‘nda strata | Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori | ‘Ccu tuttu ca fora si mori | Na’ mori stranizza d’amuri | L’amuri”


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