Dalla Chiesa e la sua intuizione sul "dna" di Cosa nostra catanese

Dalla Chiesa e la sua intuizione sul “dna” di Cosa nostra catanese

Il generale, ucciso 39 anni fa, aveva scoperchiato il patto tra mafia, imprenditoria e politica siglato alle falde dell'Etna
IL PREFETTO DI PALERMO
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CATANIA – Sono trascorsi 39 anni dall’assassinio del prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era il 3 settembre 1982, quando una raffica di kalashnikov colpiva l’auto con il generale dei carabinieri e la moglie in via Carini a Palermo. Una vittima della lunga (e feroce) guerra di Cosa nostra contro le Istituzioni, che porterà alle stragi del 1992. 

Il prefetto Dalla Chiesa è uno dei primi a capire quanto Cosa nostra catanese fosse forte e addentrata. Anzi il generale aveva intuito – prima di altri – il dna della mafia catanese, fatto di zone grigie e di collusioni tra crimine e pezzi dello Stato e dell’imprenditoria. E mentre a Catania quasi si smentiva l’esistenza della mafia, Carlo Alberto Dalla Chiesa – in una memorabile intervista a GIorgio Bocca sulle colonne de La Repubblica un mese prima del suo assassinio – diceva: “… Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia Occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”

Un’intervista che fece infuriare i Cavalieri e provocò addirittura la reazione dell’allora Presidente della Regione Siciliana Mario D’Acquisto. Una memoria storica che è stata messa nero su bianco nella relazione della Commissione nazionale Antimafia sulla criminalità organizzata catanese di qualche decennio fa. Il governatore siciliano invitò “in forma scritta e pubblica il prefetto a definire nei dettagli e meglio specificare il contenuto di quanto da lui comunicato alla stampa – ed implicitamente – ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate”. Ma Dalla Chiesa, già a giugno 1982, aveva chiesto al prefetto di Catania “una scheda completa – riassumeva la Commissione – riguardante i nuclei familiari, gli interessi, le societa` ed i possedimenti degli imprenditori Graci e Costanzo. Ne avrebbe ottenuto in risposta, qualche tempo dopo, una nota redatta con stile compilativo nella quale si teneva a precisare la rilevanza degli interessi economico- finanziari gestiti dagli stessi, e la natura del tutto necessitata di alcuni rapporti mantenuti con esponenti della criminalità catanese, giustificati, a dire del massimo esponente istituzionale della provincia di Catania, dalla necessita` di “non compromettere” il buon andamento di tali interessi; veniva specificato anzi che l’impresa Costanzo era oggetto di “mire aggressive da parte della criminalità a causa del suo ingente patrimonio”. Insomma il massimo esponente del governo quasi giustificava le “commistioni” tra imprenditoria e mafia. E inoltre nella sua “relazione” non citava i rapporti consolidati e documentati con Nitto Santapaola. 

Ma la vera identità di Cosa nostra catanese era venuta fuori all’indomani del duplice delitto di Rosario Romeo, imprenditore del settore abbigliamento, e del maresciallo Alfredo Agosta il 18 marzo 1982. A casa di Romeo furono trovate foto di gruppi in cui comparivano in atteggiamenti conviviali Nitto Santapaola, esponenti della politica, dell’imprenditoria e delle istituzioni. “A Catania dunque agli inizi degli anni ottanta cosa nostra, istituzioni politiche e grande impresa – scriveva la Commissione – avevano stretto un patto stabile, forte e consacrato dalla contemporanea presenza dei rispettivi esponenti in manifestazioni ufficiali”. Carlo Alberto Dalla Chiesa lo aveva capito. Ma purtroppo è stato ammazzato. Due anni dopo, anzi poco meno di un anno e mezzo dopo, è stato assassinato anche il giornalista Giuseppe Fava, che aveva scritto dei quattro cavalieri dell’apocalisse. In quel 1984 si iniziavano a vedere tentativi per rompere e denunciare il sistema. Ma a Catania una forte coscienza civica nella lotta alla mafia – anche se non è mai stata radicale e tanto ancora resta da fare – c’è stata solo dieci anni dopo. Dopo le stragi.


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