PALERMO – “Errori metodologici”, sovvertimento delle più “elementari regole” di redazione di una sentenza penale, “fiera demolizione” dell’attendibilità di un teste. Sono dure le parole con cui la Procura generale ha appellato la sentenza che, a luglio scorso, ha mandato assolti i due ufficiali dei carabinieri Mario Morì e Mauro Obinu.
Una durezza in scia con l’atto d’appello già presentato dal pubblico ministero di primo grado Nino Di Matteo. Adesso anche il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio prova a smontare l’assoluzione puntando il dito contro i due imputati accusati del mancato blitz che avrebbe fatto saltare, nel 1995, la cattura di Bernardo Provenzano, nonostante il confidente Luigi Ilardo, poi assassinato, avesse localizzato il padrino a Mezzojuso. Una mancata cattura che il pg definisce “l’ennesima caduta di professionalità degli imputati che hanno ottenuto, al di là di ogni prassi e logica militare, inaudite promozioni”. Il riferimento è a Mori che, dopo quel 1995, sarebbe divenuto prima generale, poi prefetto e infine direttore del Sisde. Nell’atto d’appello Patronaggio parla di “contraddittorietà e illogicità della motivazione” con cui Mori e Obinu sono stati assolti dal collegio presieduto da Mario Fontana, secondo cui, ci sarebbero state “condotte opache” e “scelte operative discutibili”, ma nessun accordo per lasciare libero e impunito per anni il boss Bernardo Provenzano. Un’accusa infamante che Mori, nel corso di lunghissime dichiarazioni spontanee, aveva rispedito al mittente difendendo l’operato suo e dei suoi uomini.
La quarta sezione del Tribunale, si legge nell’appello del sostituto procuratore generale, “lungi dall’esaminare le prove articolate a dimostrare l’esistenza dell’elemento materiale del reato di favoreggiamento personale contestato agli imputati ha viceversa speso ben 853 pagine su un totale di 1318 per confutare l’esistenza della trattativa Stato-mafia”. Ed è qui che il Tribunale avrebbe sovvertito “elementari regole” visto che innanzitutto avrebbe dovuto accertare “l’esistenza dell’elemento materiale del reato”.
Secondo Patronaggio, prima di concentrarsi sulla causa e il movente dell’eventuale reato bisognava verificare se “la condotta degli imputati nella gestione di Ilardo fosse stata una continuazione della condotta gravemente omissiva che aveva connotato la mancata perquisizione del covo di Totò Riina”, se il mancato blitz di Mezzojuso sia stato frutto di “un piano di azione volto ad una più sicura cattura del latitante ovvero una operazione per finalità non istituzionale, connotata da volontari, gravi e grossolani errori ed omissioni”. Ecco, solo dopo aver valutato tutto ciò, si legge nell’atto di appello, il Tribunale avrebbe potuto affrontare l’elemento soggettivo del reato, perché “nonostante le tante e ingiustificate remore del collegio in ordine all’attendibilità del colonnello Riccio sembrerebbe che il fatto oggettivo di una condotta omissiva sia stata data come provata e accertata dal giudice di primo grado”.
Luigi Ilardo era la fonte riservata del colonnello Michele Riccio, il primo a denunciare le pressioni di Mori e Obinu per far saltare il blitz nel casolare dove Provenzano aveva riunito i suoi fedelissimi. Secondo i giudici del processo di primo grado, però, Riccio non aveva raccontato tutta la verità e non informò tempestivamente i magistrati della condotta tenuta dai suoi superiori.
“Il Tribunale – scrive Patronaggio – ha ridotto questo processo ad un processo fortemente indiziario… non si spiega altrimenti la fiera opera di demolizione del teste Riccio… appare fin troppo evidente che – prosegue – cercare di provare la responsabilità degli imputati attraverso la prova certa dell’esistenza della Trattativa, oggetto per altro di un altro processo, è impresa ardua oltre che errata da un punto di vista logico-giuridico”.
Un passaggio che si conclude con la presa di posizione del Pg che non esclude fin d’ora, “ove non si ritenesse provato che gli imputati abbiano agito per favorire l’ala stragista di Cosa nostra, al fine di fare cessare la strategia stragista dei corleonesi, di potere fare ricorso ad una richiesta subordinata di affermazione della penale responsabilità degli imputati per favoreggiamento personale aggravato dall’articolo 7”. Come dire, il generale Mori e il colonnello Obinu avrebbero favorito Provenzano prima ancora dell’intera organizzazione mafiosa.
Nel suo appello il sostituto Patronaggio si concentra su quella che in primo grado sarebbe stata stata, a suo dire, la “mancata valorizzazione ed armonizzazione con altri elementi di prova” di due precedenti vicende che ebbero Mori come protagonista: la mancata perquisizione del covo di Riina (Mori in passato è stato processato e assolto) e la mancata cattura del capomafia catanese Nitto Santapaola. Nell’aprile del 1993, mentre indagavano sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, gli investigatori ritennero di avere intercettato la voce di Santapaola e di averlo localizzato in un esercizio commerciale a Barcellona Pozzo di Gotto. Mori diede il via alle operazioni di cattura, raccomandando massima segretezza. “Tuttavia – scrive Patronaggio – avvenne ad opera dei più stretti collaboratori del Mori un espisodio che da dell’incredibile e che vanificò quelle esigenze di segretezza, infatti successe che l’allora capitano Sergio De Caprio e l’allora capitano Giuseppe De Donno (per intenderci rispettivamente l’ufficiale della mancata perquisizione del covo di Riina e quella della trattativa con Vito Ciancimino) transitando ‘casualmente’ per Terme Vigliatore ritenevano di avere di individuato in auto in transito il boss palermitano Pietro Aglieri e decidevano – si legge ancora – quindi un improvviso attacco a quella vettura a colpi di arma da fuoco. Si scoprì che su quella macchina viaggiava non Pietro Aglieri ma il giovanissimo incensurato Fortunato Imbesi, figlio di un noto imprenditore del luogo. Il clamore della vicenda mise in fuga il Santapaola che fu catturato qualche mesi più tardi dalla Polizia” . Già il pm di primo grado, Nino Di Matteo, si era soffermato sulla vicenda sostenendo che anche in quell’occasione Mori avrebbe voluto favorire un mafioso, Santapaola, da lui individuato come un possibile interlocutore della trattativa.
Una vicenda che ora, anche agli occhi del pg, appare inquietante. Si sarebbe trattato di un’azione militare “ingiustificata ed assurda, soprattutto perché proveniente da abilissimi e navigati militari. Non è infatti possibile che, ancora un volta, abilissimi militari e ufficiali di polizia giudiziaria, incorrano in pacchiani errori operativi, di fatto agevolatori di condotte criminali, senza potere scorgere un filo logico che lega fra loro questi presunti errori e che viceversa, ove correttamente letto, adduce alla conclusione dell’esistenza di un preciso disegno criminoso perseguito negli anni dagli imputati”.