PALERMO – “Per un periodo, quando di sera chiudevo il locale, mi guardavo alle spalle – racconta Antonio Cottone -. Oppure rientravo a casa con il casco in testa e restavo al telefono con mia moglie durante il tragitto. Poi, pian piano, la paura è passata. O meglio, c’è ancora, ma so di non essere solo”.
Ecco la differenza tra ieri e oggi, fra il 29 agosto del 1991, quando la mafia ammazzava Libero Grassi, e lo stesso giorno del 2019. Oggi, appunto. Chi si ribella al racket non è più solo. Non è, come nel caso di Grassi, il gesto eroico del singolo a dovere spianare la strada verso la normalità. La paura è un sentimento che attraversa immutato gli anni e le coscienze, e di cui non ci si deve vergognare. La differenza sostanziale fra ieri e oggi è il fatto di poterla affrontare con l’aiuto di qualcuno.
Cottone si alza presto al mattino affinché tutto sia pronto di sera per accogliere i clienti nella sua pizzeria. E sono tante le persone che affollano “La Braciera”, uno dei locali più conosciuti della città. Si è ripreso la normalità della sua vita dopo vent’anni di pizzo. “È stata dura, difficile, ma ad un certo punto con i miei fratelli (Roberto e Marcello, ndr) abbiamo detto basta”, racconta senza mai usare l’aggettivo “straordinario” per descrivere ciò che hanno fatto.
Una sera del 2016 ebbero innanzitutto uno scatto di orgoglio. Sergio Macaluso e Domenico Mammi, mafiosi e oggi pentiti, si presentarono nel locale di via Resuttana: “Erano le 20:01 (certi ricordi hanno la forza dei dettagli, ndr) ordinarono una pizza margherita e mi chiamarono in disparte: ‘È un bel po’ che non vi fate vivi, mettetevi a posto, cercatevi un amico”.
L’amico lo cercarono davvero, i Cottone. Componendo il 113, però. “Li abbiamo spinti fuori dal locale – racconta –, salirono sulla Smart. Non si aspettavano la nostra reazione. Ho bloccato il traffico, non avevano via di uscita. Li guardavo negli occhi, erano disarmati, disorientati”.
Macaluso e il suo braccio destro Mammi furono arrestati. La faccenda si sarebbe anche potuta chiudere quel giorno. Ed ecco il coraggio dei Cottone di aprire uno squarcio molto più ampio nella loro vita, raccontando una storia ventennale di soprusi. Nessuno glielo aveva chiesto. Non è stato né facile, né scontato. Ci sono riusciti con l’appoggio del comitato Addiopizzo: “Era già accaduto che altri tornassero a chiederci i soldi. Era giunto il momento di chiudere i conti con il passato. E per sempre”.
Arrestavano un estorsore e se ne presentava un altro. Si passavano il testimone del pizzo: “Speravamo che non tornassero più. Ed invece era un’illusione”. Era davvero giunto il momento di archiviare una lunga parentesi. Lunga e buia, vissuta con una paura doppia: “Quella di subire ritorsioni dalla mafia e quella che prima o poi la nostra immagine di uomini e di imprenditori venisse compromessa. Dovevamo salvaguardare il buon nome dell’azienda”.
È guardando dentro se stessi che si trova la forza di dire basta “perché, diciamocelo con franchezza – spiega – pagare il pizzo può anche sembrare conveniente per evitare altri guai. Allora ti abitui a pagare. Il pizzo diventa una tassa come le altre. Solo quando capisci che non è questa la normalità, solo allora scatta qualcosa”.
L’importante è non essere da soli al momento della scelta. Cottone ha trovato l’appoggio di Addiopizzo, in particolare di Daniele Marannano e dell’avvocato Salvatore Caradonna, che segue il comitato dal punto di vista legale, di poliziotti e carabinieri: “Mi sono ritrovato accanto uomini e donne. Lo Stato in carne e ossa”. Cottone non ha dubbi: “Oggi sono non solo un uomo, ma anche un imprenditore migliore di prima. Riesco ad attribuire alle cose, anche al denaro, il valore che meritano”.
Non è facile denunciare. Ci si misura spesso anche con il condizionamento ambientale. Si vive in un quartiere, si conoscono delle persone e poi si scopre che indossano una maschera: “Io me lo ricordo Sergio Napolitano (altro boss della zona arrestato, ndr). Me lo ricordo quando andavamo assieme alle feste del liceo Galilei. Altri li incontravo all’Ippodromo (Antonio Cottone faceva il driver, ndr)”.
Si cresce insieme, si scelgono strade diverse. Le strade, però, si possono pericolosamente incrociare. Quando accade non si deve avere dubbio alcuno nella scelta. “Per andare in giro a testa alta, come faccio io – conclude Cottone – si sceglie di denunciare, in silenzio, di provare a dare conforto ad altri imprenditori, di incontrare i ragazzi e spiegare nelle scuole che cos’è il pizzo, magari partendo da un battuta: è il maschio della pizza”.
Alla fine si riconquista la propria vita. Anzi, la normalità della vita. Nel giorno in cui si ricorda il sacrificio di Libero Grassi, sono queste storie a dare coraggio in una terra dove il pizzo si continua a pagare. Le inchieste recenti hanno fatto emergere decine e decine di estorsioni a fronte di una manciata di denunce. Lo Stato arresta i mafiosi con ritmo incessante, ma la tassa di Cosa Nostra è ancora diffusa. Si paga per paura, ma anche per convenienza e connivenza in un’economia dove i soldi sporchi servono a finanziare l’apertura di attività commerciali. Il mafioso risolve piccole e grandi questioni. Rivolgendosi a lui si fa prima rispetto alle vie legali e il pizzo diventa un costo digeribile della mediazione.
Se non ci fossero vicende come quella dei titolari della pizzeria “La Braciera” l’esempio di Libero Grassi sarebbe la testimonianza di un sacrificio servito solo a tracciare l’immagine di ciò che poteva essere e non è stato, di una terra che non ha saputo voltare pagina. Il pizzo si continua a pagare, è vero, ma c’è chi dice no senza dovere per forza essere un eroe. E soprattutto senza essere più solo.