Una neonata è morta, nel naufragio di Lampedusa, con gli sfortunati passeggeri di due imbarcazioni. Un’altra bambina lotta per la vita all’Ospedale dei Bambini di Palermo, dopo una drammatica traversata. Scorrendo i social, a margine di simili tragedie, si annotano, purtroppo, schiere di faccine impregnate d’ilarità che provocano sgomento.
E poi ci sono i commenti: perché non stavano a casa loro... perché sono partiti… se non si fossero mossi, sarebbero ancora vivi… Ma, forse, proprio la circostanza, negli autori delle suddette opinioni, dovrebbe promuovere l’ombra di un sospetto.
Se le persone si imbarcano, in condizioni disperate, accettando il rischio di non arrivare mai, forse non hanno altra scelta. O, forse, le opzioni alternative disponibili sono talmente atroci da essere scartate.
Le faccine sorridenti rappresentano l’apice dell’incomprensibile. Va bene che i social mostrano canoni differenti dalla vita reale, per quanto l’abbiano in una porzione non piccola sostituita (ahinoi). Ma in nessun luogo dovrebbe essere dimenticata la memoria del sacro.
La vita è sacra. Lo è come la sofferenza e come la speranza. Davanti a uno strazio tanto profondo si può pregare, esprimere vicinanza, piangere, stare accanto a chi soffre. Tutto quello che percorre strade contrarie diventa un’offesa al dolore. E a noi stessi.
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