PALERMO – L’aria di festa ieri l’ho sentita appena ho messo il naso fuori di casa, sin dai primi passi che compio da anni per raggiungere lo stadio da via Sampolo, dove abito. Mancava più di un’ora all’inizio della partita e già tutta la via brillava in ogni dove dei colori che tanto amiamo, noi tifosi, tutti in marcia verso il “Barbera”. Sembrava un pellegrinaggio e forse lo era, come una dichiarazione di pentimento per averlo ignorato fino alla settimana prima, quando la stragrande maggioranza di essi ha preferito la poltrona di casa agli scomodi sediolini della curva . Compio l’itinerario casa-stadio da una vita, per me è un rito, passo dopo passo – e sono tanti, migliaia, non li ho mai contati ma un giorno… dovrò farlo – mi avvicino a quello che considero il tempio della passione più grande della mia vita: il calcio, che per me vuol dire sempre e solo il Palermo. Non ho altre “simpatie”, non ne ho avuto mai bisogno perché il Palermo, nel bene e nel male, se l’è prese tutte lui. Da sempre. Ma dicevo: ieri, appena messo il naso fuori di casa, si avvertiva l’aria di festa, camminavo insieme a tanti altri “aficionados” (come chiamarli altrimenti, non so), tutti con qualcosa di rosanero addosso, un cappellino, una maglia, una sciarpa, spesso vecchi cimeli d’un tempo ormai remoto, tipo la maglia numero 9 di Maniero o quella, ancora più vecchia di un Di Carlo o di un Santino Nuccio. Tempi passati ma mai tramontati e, soprattutto, mai dimenticati. Ho pensato: oggi c’è gente che torna allo stadio dopo una vita e l’ho trovato un pensiero stupendo, come dire che questa promozione, anche se non ha illuminato d’immenso, da un angolo all’altro, tutta la città, ha risvegliato i sentimenti più belli di chi comunque ama il rosanero. E così tutti hanno voluto esserci nel giorno della festa, anche se per dimostrare la loro fede rosanero, hanno dovuto rimestare a lungo nei recessi più inesplorati degli armadi e tirar fuori quel che gli era rimasto di quei tempi. Dunque, una maglia di Maniero o quella di Nuccio. O quella di “Bugia” Montesano, il primo grande del passato che il gran cerimoniere della festa, Massimo Munutella, ha chiamato al centro del campo per donargli la maglia rosanero. L’ho guardato dall’alto della mia postazione in tribuna stampa e ho visto solo la sua zazzera spolverata di bianco e un fremito ha scosso il mio cuore: mi succede sempre quando rivedo dopo anni un mio “mito” e non accetto che il tempo abbia così crudelmente agito su di lui. Poi, però, Giampolo ha preso il microfono e nella sua voce ho avvertito commozione sincera: “Oggi per me è come fossi in serie A anch’io…”. E mi sono intenerito, perché lui, grande funambolo dell’area di rigore, sublime dribblomane che faceva strame dei terzini di allora – compresi i più forti, tipo Vierchowod, che in un’intervista disse che “l’unico attaccante che non riuscii mai a fermare fu Montesano – uno che in coppia con il compianto De Rosa ci fece a lungo sognare; dicevo, lui, Montesano, per giocare in serie A dovette aspettare l’Udinese, ma il suo tempo più bello era ormai passato e il suo sogno, così a lungo sognato, si rivelò alla fine solo un’illusione. Ma è bastato che lui facesse il giro del campo e salutasse la curva agitando le braccia per sentire l’urlo della folla, dentro il quale c’era l’amore di sempre, quello che non finirà mai, quello per la maglia, che è un’idea, un pensiero, un simbolo. Con il quale cavalchiamo e voliamo, facciamo viaggi interstellari, non ci ferma nessuno. Come fai a spegnere un’idea, se è dentro di te, ti dà linfa, ti dà la forza di andare sempre avanti, sempre avanti, anche quando, a vista, non c’è nulla di bello all’orizzonte?
Manca quasi un’ora al fischio d’inizio e già lo stadio è tutto un tripudio di bandiere; rimbomba di cori, di canti, di inni. Tutto, senza distinzioni di settori, curva Nord inferiore e superiore? Non si distinguono nemmeno l’una dall’altra perché è corpo solo, grande, stupendo: una magnifica, interminabile macchia rosanero, che da un angolo all’altro ricopre tutto lo stadio. E Minutella è scatenato, dirige i cori, li suggerisce e se avverte qualche languore li scuote, quasi li minaccia: “Non fatemi gridare troppo, ché la voce mi serve fino alla presentazione all’americana che faremo a fine partita!”:
Ah, già, la partita, un dettaglio, stavolta, perché al centro c’è la festa, la voglia di abbracciare in un afflato unico, fatto da trentamila anime, gli undici che scenderanno in campo. Ed anche i panchinari. E quando i giocatori sbucano fuori ad uno ad uno come in una scenografia studiata ad hoc, lo stadio diventa una bolgia, l’urlo dei trentamila lo fa tremare come se le scalinate dovessero cedere da un momento all’altro. E’ un urlo sovrumano, che non sentivo da troppo tempo; è lo stadio che si rianima e diventa quel che è sempre stato, per storia e tradizione, ovvero il dodicesimo uomo in campo. Per com’è fatto il nostro “Barbera”, quando gli spalti sono pieni ed esplode il tifo, ogni giocatore in campo, anche il più placido, perfino il più scarso, si sente un leone e corre e lotta come un leone. Così fa il Palermo per tutto il primo tempo, contro un Lanciano battagliero, che ha un traguardo ancora visibile, che è quello dei play off e quindi lotta su ogni centimetro di campo, ma non ce la fa; sono troppo forti Dybala, Hernandez e Vazquez e Barreto e Bolzoni e Lazaar e tutti gli altri. E allora si erge a protagonista assoluto il portiere Sepe, che para tutto, tre colpi di testa da pochi passi di Hernandez; perfino un doppio destro dell’uruguagio che calcia da pochi passi: prima devia di pugno, poi smanaccia sulla traversa. E altre due traverse lo salvano, sempre su capocciate di Hernandez. Ma al 41’ nulla può anche il “ mille braccia” Sepe: l’azione è ubriacante, è veloce, sempre di più, come un crescendo rossiniano, scambi rapidi da un fronte all’altro, finché la palla arriva sui piedi sbarazzini di Dybala, che dribbla e poi in verticale lancia nel mezzo dell’area, dove c’è come sempre Hernadenz, che fa sponda di testa per l’accorrente capitan Barreto (il migliore fino ad allora) che colpisce al volo di sinistro. E’ un’autentica fucilata, cui si oppone come può Sepe, ma le sue mani stavolta non bastano, piegate come fuscelli dalla staffilata del capitano. 1-0 per i rosa tutti in piedi a fare la “Ola”, roba di tempi cosi lontani che si fa fatica perfino a ricordarli. Poi, ad inizio ripresa, pareggia il Lanciano: che sia festa anche per loro, perché tarpare i loro sogni?. 1-1 è il risultato finale. Un dettaglio. E’ finita la festa? Macchè, è appena cominciata. Minutella si è ben preparato e, con la musica dei Queen’s come sottofondo, chiama ad uno ad uno i giocatori, che sbucano dal sottopassaggio e salutano la folla, tutta in piedi ad acclamarli. L’ultimo è Iachini, argutamente annunciato da Minutella come “Il cappellino più famoso d’Italia”. Iachini si fa tutto il giro del campo a braccia levate, saluta e si inchina, comincia dalla Nord, poi la gradinata, poi la Sud, poi la Tribuna e si percepisce da lontano la sua grande commozione. Perché questa, fra tutti i protagonisti di questa magnifica impresa che è la promozione i n serie A, è la sua festa. La festa di un uomo umile, che crede e si batte per i valori eterni della vita, la lealtà, il rispetto, l’onestà e, come allenatore, il lavoro, il lavoro ed ancora il lavoro.