Ventinove anni fa era un sabato quando nel pomeriggio l’esplosivo di Cosa nostra sventrò l’autostrada a Capaci uccidendo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Oggi, nell’anniversario di quel mai dimenticato 23 maggio, si celebrerà come di consueto la memoria di quella giornata. E malgrado la pandemia, le celebrazioni prevedono un ricco programma di eventi che seguiremo in diretta (LEGGI QUI IL PROGRAMMA)
Ma questo 23 maggio non è un anniversario come gli altri. Perché cade nel pieno di uno dei periodi più difficili per l’istituzione magistratura, a cui il giudice Falcone consacrò la sua esistenza fino al sacrificio della vita. Ricordare oggi la più alta figura di magistrato nella storia repubblicana vuole dire anche guardare all’attuale condizione dell’istituzione a cui la Carta affida il potere giudiziario, in un momento in cui la fiducia dell’opinione pubblica nelle toghe tocca i suoi minimi storici. Secondo un recentissimo sondaggio di Pagnoncelli per il Corriere solo il 39 per cento degli italiani dichiara oggi di avere fiducia nella magistratura, dato analogo a quello rilevato da un sondaggio di Emg per Adnkronos.
Una sequela di scandali ha minato l’immagine della magistratura, scandali che si aggiungono ad altri sintomi di un più generale problema del sistema giudiziario, da numeri impietosi sulla lentezza della Giustizia alle somme pesantissime che ogni anno lo Stato esborsa per risarcire le vittime di ingiusta detenzione ed errori giudiziari. Il Csm è finito nella bufera mediatica, le dinamiche delle correnti della magistratura organizzata sono state svelate impietosamente nell’indagine che ruotava attorno a Luca Palamara. È un momento difficile e la memoria di Giovanni Falcone, che interpretò con rigore il suo ruolo a costo di finire isolato e ostracizzato, appare oggi un fortissimo richiamo che indica la strada alla magistratura italiana.
Ne è convinta anche Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso, anima delle iniziative che ne ricordano il martirio. “Non si lamentava in pubblico, amava la magistratura e rispettava profondamente il Csm – ricorda -. Se ne andò da Palermo con grande dolore perché non poteva più lavorare e anche se diceva che qui aveva costruito la casa della lotta alla mafia e a Roma avrebbe fatto il palazzo, fu per lui doloroso andare via. Ma non fece rumore, mi disse però che non voleva che si parlasse ancora del Palazzo di Giustizia come del palazzo dei veleni”. Un insegnamento da non dimenticare quando si pensa alle recenti polemiche, a volte con enorme impatto mediatico, su nomine e carriere.
Le ferite di quella stagione, il fuoco amico di parte della magistratura, sono tra quei pezzi di storia che meno volentieri si ricordano quando si ripercorre la vita di Giovanni Falcone. “Fu un grandissimo dolore per lui presentarsi al Csm quasi a doversi discolpare di qualcosa. Ma sono cose note, non vorrei parlarne più di tanto”, dice Maria Falcone. La sorella del giudice però tiene a sottolineare altri aspetti della cifra con cui il magistrato ucciso a Capaci interpretava il suo ruolo. Sottintendendo lampanti diversità con tante pagine recenti. “Si scriveva da solo i verbali per ridurre al minimo il rischio di fuga di notizie. Mi pare che oggi le cose vadano diversamente. E se Giovanni parlava in qualche intervista lo faceva solo perché diceva che era bene che si parlasse di mafia perché all’epoca non se ne parlava”. Un altro esempio da ricordare, lontano dal protagonismo e dalla spettacolarizzazione della giustizia, malgrado le accuse di sovraesposizione mediatica che certi suoi detrattori gli rinfacciarono ai tempi.
L’esempio di Falcone parla forte e chiaro ai nostri giorni. La ricerca seria e severa di un impianto probatorio che giustificasse il processo, senza imbastire procedimenti destinati a poter vivere solo sui giornali ma a morire in Aula, l’idea chiara e pubblicamente espressa di un processo giusto, con un giudice chiaramente e nettamente terzo rispetto all’accusa e alla difesa, l’approccio laico e fuori dai giochi di partito verso la politica e il potere esecutivo, il rigore senza sconti verso il pataccaro calunniatore di turno (après lui, le déluge), la condanna della cultura del sospetto come “anticamera del kohmeinismo”.
E allora l’augurio per questo 23 maggio è che la magistratura cammini sempre nel solco di quell’insegnamento e di quella testimonianza, per un futuro migliore di quella Giustizia sul cui altare Falcone e altri servitori dello Stato sacrificarono la propria vita. Il che suona retorico, forse, dopo anni e anni di celebrazioni. Ma drammaticamente vero e attuale, forse oggi più che mai.