Londra, un Novembre umido non lascia cadere gocce di pioggia sul mio cappello nuovo e in lontananza le luci del Christmas Village ad Hyde Park illuminano il cielo di fluorescenze. Le fronde di verdissimi alberi ballano leggere al vento sottile, i comignoli delle case fumano alti, la strada profuma di pulito e l’atmosfera è quella di Mary Poppins.
All’Istituto Italiano di Cultura, un meraviglioso palazzo bianco, ricco di motivi decorativi e con le finestre fiorite, l’emerito prof. Farrell presenta il suo ultimo capolavoro: ‘Sicily – A Cultural History’. Parla, parla moltissimo. Sento questo accento sconosciuto accarezzare una voce insolita che racconta della mia terra, della mia città. Nell’orgoglio misto all’inquitudine, la sensazione di pendere dalle labbra di un estraneo attendendo un momento di intimità che non è mai arrivato.
Palermo e la cappella palatina, gli arabi e i normanni, Menfi, Modica, Siracusa, Segesta, Catania e l’Etna, Taormina e i templi di Agrigento. Sciascia, Pirandello, Consolo e Tomasi di Lampedusa. Guttuso, Antonello da Messina, Vaccarini e Serpotta. Cardinali troppo potenti, il Padrino, Corleone, il profumo della Zagara, la siccità e i vicoli. Troppe informazioni per quella pronuncia accademica. Non una storpiatura, non un tentennamento. Ma chi è lei, che conosce così bene la storia della mia terra, la mia storia?
C’è stato anche lo spazio per la commozione. Coinvolta da quell’entusiasmo contagioso, da un inglese forbito e dagli applausi di avventori dalla pelle troppo chiara, mi lascio trascinare in un sorriso a tratti fiero, ma per il resto quel sorriso cretino e inutile, il sorriso del primo della classe quando la maestra spiega qualcosa che lui sa già.
Dopo più di trenta minuti, l’emerito prof. recita una parte del film Johnny Stecchino, quella in cui Bonacelli racconta delle tre piaghe di Palermo. Avevo capito perfettamente dove volesse andare a parare, quale tasto stava lucidando per bene, preparandosi a spingerlo con tutta la forza che aveva in corpo. La parola con la M. non la scrivo, non la dico. Scusatemi, ma ieri l’ho sentita per un eccessivo numero di volte e mi ha rimbombato nel cervello per un tempo infinto. Non esiste. I siciliani non ne parlano. I siciliani hanno paura, non cresceranno mai, non si ribelleranno mai. Dalla platea si alza una mano, una ragazza, italiana, togliendomi le parole di bocca afferma che la parola con la M. in realtà è una ragnatela decisamente più grande ed articolata. L’emerito prof. in una elegantissima abile torsione diplomatica, glissa. Il pubblico è divertito, l’emerito prof. rasserenato, per essere uscito da quel brutto impiccio. Non sa, mai saputo. Non aveva altro da fare se non fuggire, linguisticamente parlando, verso acque più calme.
D’un tratto tutte le bellissime parole che aveva speso per la mia adorata, adorata, terra sono evaporate. Come se le avessi immaginate, avviluppata dalla presunzione che incombeva su quel salone. Diventano ora nitidi ai miei occhi l’immagine, l’odore, il retaggio, la polvere e l’ingombro esagerato che quell’isola lì giù ha per il mondo. La saccenza dell’emerito prof. è stata per me più evidente che mai. Ho pensato di alzarmi in piedi e zittirli tutti. Avrei urlato, parlato, chiarito, gesticolato, raccontato, spiegato e argomentato. Avrei fatto esplodere quelle testoline rossastre e serrato quei sorrisi plastici, ignoranti, in una botta di vera consocenza. Una conoscenza per nulla elegante, forse puzzolente ma vera, esagerata, siciliana. Sono stata in silenzio, ed è stato il prezzo più alto che abbia mai pagato. Sicilia figlia, madre, sorella, amante e migliore amica. Non succederà più.