Quattordici anni dopo, stessa luogo, apparentemente la stessa atmosfera. L’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza è gremita: studenti raggianti per aver conseguito il loro primo vero obiettivo regalano uno sguardo compiaciuto al passato ed uno, assai più timido, verso un futuro incerto. Genitori con gli occhi lucidi di commozione, spesso del tutto ignari di ciò cui stanno assistendo, sono però consapevoli che quello è un giorno importante per i loro figli, finalmente pronti al grande salto verso un mondo sempre più indifferente. Eppure, dopo tanti anni, si percepisce qualcosa di diverso: espressioni apparentemente determinate permettono ad un occhio più attento di scorgere una profonda insicurezza; certezze, sempre più deboli, cercano invano rifugio dietro una maschera di compiacimento destinata a sciogliersi come neve al sole nel momento dei primi veri e spietati confronti.
Giovani che appaiono svuotati, privi di entusiasmo, impauriti, amaramente consapevoli che i sacrifici e le ansie con i quali hanno imparato a convivere non li hanno preparati ad affrontare ciò che li aspetta: vittime della voglia di dimostrare il proprio valore a chi, di contro, non dimostra alcun interesse. In loro si è spenta la passione: alcuni di essi sono prigionieri dell’illusione di sentirsi già pronti, preparati, per il solo fatto di aver quasi fagocitato esperienze talvolta insignificanti; privi di pazienza, aggrediscono il tempo annullando le pause utili a maturare; non riservano tempo alla pratica ed attenzione nell’imparare. Di contro, ve ne sono tanti altri già disillusi, disinteressati verso ogni orizzonte gli offra la vita; macerati nell’incertezza hanno già abdicato al desiderio di fare della loro futura professione un mezzo per la realizzazione personale. Tante nozioni, troppe materie spesso inutili, salvo poi ritrovarsi soli e smarriti dinanzi alle scelte da compiere ed alle incognite che ogni sentiero intrapreso inevitabilmente presenterà loro.
Un percorso di studi ormai oppresso da adempimenti amministrativi: diplomi, crediti formativi, materie, tesi, tesine, master, specializzazioni, come figurine da collezionare e giocare, poi, nella grande sfida con la vita. Sempre più matricole e sempre meno individui; si rinuncia a formare teste pensanti, ad indirizzarne il talento per costruirvi attorno una personalità. Non resta che tornare a parlare al cuore dei ragazzi, dedicare loro il tempo necessario ed offrire un esempio e tutta l’esperienza di cui si dispone. Il ricordo fugge via lontano al 1989: ragazzi poco più che adolescenti ammaliati dall’incontro con John Keating, il professore magistralmente interpretato da Robin Williams. Improvvisamente tutti godevano del privilegio di rivivere, a due passi da via Libertà in un orribile palazzone prestato all’insegnamento, l’atmosfera di Welton, del Vermont. Come per effetto di un’illuminazione, cambiava il loro approccio nel guardare alla vita, nel ritagliarsi il proprio spazio ed il proprio ruolo; ad esso è seguita l’emozione, il comune senso di appartenenza, la consapevolezza di aver trovato in quegli anni di liceo dei veri maestri e non soltanto dei professori.
Personaggi severi, apparentemente burberi, ma capaci di trasmettere stimoli e suggestioni, di alimentare le passioni che si agitavano in quei cuori acerbi; sempre disposti ad individuare le esigenze dei singoli, l’uno diverso dall’altro: chi da motivare, chi da indirizzare, chi da rassicurare, chi da disilludere in merito alle proprie supposte capacità. Non farlo non avrebbe rappresentato una benevola forma di fiducia, ma solo l’espressione del più ipocrita disinteresse. Nessuno di quei ragazzi era un nome sul registro, un personaggio senz’anima, quei giorni non trascorrevano mai tutti uguali nel reciproco ruolo di studenti e docenti.
La magia era nella complicità e nella condivisione createsi con quegli insegnanti, guide cui erano disposti ad affidarsi senza riserve e con incrollabile fiducia; nella nuova e rivoluzionaria visione dei rapporti tra giovani e adulti, tra allievi ed insegnanti, tra il presente che fondava le radici nel passato e coloro che erano chiamati a costruire il futuro, in un equilibrio sempre mutevole ma guidato dal buon esempio come un saldo timone nelle peggiori tempeste.
Per cinque anni è stata curata la loro crescita, affiancando le nozioni alla costante ricerca di stimoli per rinnovarne l’entusiasmo. Molti di quei ragazzi, oggi quasi quarantenni, hanno costruito una carriera professionale che li vede realizzati prima ancora che come professionisti, come uomini; hanno trovato la scintilla in grado di accendere la passione alimentata in quei giorni lontani sebbene, come in un gioco beffardo, pare sia stato il destino a sceglierli, e non viceversa. Oggi, divenuti uomini, ricordano l’illusione un po’ ingenua ed a lungo coltivata che il mondo avesse bisogno del loro talento, del loro entusiasmo dinanzi ad ogni sentiero da battere senza preclusioni verso futuro luminoso; desiderosi di affrontare ogni sfida, ci si gettavano con il cuore per superare ogni ostacolo.
Nei loro occhi si può scorgere l’orgoglio di aver ripagato chi negli anni ha creduto nelle loro potenzialità. Risuona ancora l’eco delle parole di chi li ha sempre spronati a sfruttare il loro talento; affiora la consapevolezza di non aver mai ceduto allo sconforto dei momenti difficili e la loro tenacia, la loro feroce determinazione serve da sprone a chi, oggi, in essi voglia trovare un modello. Perché gli studenti non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere ed impresse a fuoco nell’anima di quei ragazzi ancora oggi suscitano emozione le parole del Professor Keating: “Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”