CATANIA- Kalashnikov, bazooka, lanciamissili, fucili di precisione, bombe a mano, mitragliette e pistole d’ogni calibro. I collaboratori dei Cappello-Bonaccorsi, vuotano il sacco e parlano dei segreti dell’aresenale in dotazione all’esercito per eccellenza della mafia catanese: il gruppo dei Carateddi guidato dai Lo Giudice, in guerra con i Santapaola. Mentre gli inquirenti guidati dal Pm Pasquale Pacifico fermano sul nascere una nuova guerra di mafia, l’ennesima, che si combatte a Catania.
Tutto inizia trent’anni fa, trent’anni scritti col sangue dal gruppo che diede vita ai Pillera-Cappello, che già negli anni ’80 spadroneggiavano a Catania imponendo il dominio sulle contrade del cuore della città a colpi di pistola. Una guerra con i Santapaola che ancora oggi lascia strascichi. Ferma la promessa che ogni tradimento sarebbe stato pagato a caro prezzo, com’è avvenuto con Nicola Lo Faro, già responsabile del clan dei Cursoti, ucciso dai boss Orazio Privitera e Sebastiano Lo Giudice per aver ammazzato, a sua volta, Giuseppe Vinciguerra, affiliato ai Cappello poi transitato nei Santapaola.
La forza della mafia militare catanese dei Cappello sta nelle sue articolazioni, sottogruppi dislocati nei vari quartieri della città con autonomia gestionale, come quello che fa capo a Ignazio Bonaccorsi, il più potente. Ma è nella faida degli anni ’90 che si delinea l’assetto attuale della mafia etnea. Il gruppo originario Pillera-Cappello si spacca: i clan Sciuto-Laudani-Savasta entrano in conflitto con i seguaci dei Pillera-Cappello e i picciotti dei Piacenti detti “Ceusi”. Una faida che produce decine di morti e consolida i Cappello da una parte e gli Sciuto-Laudani-Savasta dall’altra. A questo punto emerge la figura di Salvatore Cappello, che stringe un patto di sangue con Ignazio Bonaccorsi a San Cristoforo, ne viene fuori una macchina infernale. Che ha scritto la legge del quartiere più pericoloso di Catania con il piombo “dimostrandosi -recita la sentenza del processo Revenge 2- nel corso degli anni uno dei più attivi sia nella commissione di svariati fatti di sangue, sia nel perpetrare delitti contro il patrimonio e sia nel lucroso settore del traffico di stupefacenti, ciò grazie a un capillare controllo del territorio di propria influenza”.
Con le cimici della Squadra Mobile il Pm Pasquale Pacifico ha scoperto i segreti del clan ricostruendo i rapporti con gli storici padrini e i nuovi affari. Ruolo di primo piano è quello di Gaetano Lo Giudice, custode di una vera e propria armeria. Rispettoso delle regole, ad ogni rapina versa una quota nelle casse del gruppo, anche quando si tratta di interi container di sigarette, comodamente sottratti nella stazione Acquicella, a due passi da via della Concordia, lo stradone che divide il Tondicello della Playa da San Cristoro e unisce le ambizioni di Lo Giudice e Angelo Santapaola, eterni rivali. Santapaola voleva una quota di ogni furto, estorsione, di qualunque cosa accadesse nei dintorni di via della Concordia. “Perché ci mangia a via Concordia -ha detto il collaboratore Vincenzo Fiorentino- sia la stazione Acquicella ci mangiava lui e, infatti ci sono stati disguidi per queste cose”. Mica si tratta di rapine da quattro soldi, un container di sigarette frutta al clan “un milione di euro”, ha aggiunto Fiorentino e poi c’è la cocaina. “Loro -confida il pentito- la prendevano a Napoli, era Gaetano che aveva i contatti con questi napoletani, infatti prima di arrestarmi ha fatto arrivare dieci pistole, ha fatto arrivare, perché lui fa il bancomat a Milano e compra le armi e poi ce le manda a suo figlio Sebastiano”. Furti di bancomat e “il buco”, cioè lo sfondamento di banche e uffici postali con automezzi speciali. Braccio destro di Lo Giudice, in questo genere di affari, sarebbe “Matteo Manganaro -svela Fiorentino ai Pm- insieme sono specialisti”.
Le armi arrivano nei borsoni, lo schema è studiato a tavolino, furti di bancomat a Milano e spedizione di armi a Catania “con i camion”: consegna del materiale “al Fortino”, luogo simbolo della città e della malavita. “Prima ca m’attaccaru a mia -ricorda Fiorentino- cu un camion purtau na para di pistole ca i mannau Gaetano Lo Giudice e n’ancuntrammu o Fortinu cu chissu, ca ci rese u borsone a Sebastiano Lo Giudice, ci ii iu, Stuppia e Gaetano Musumeci, unni c’è u chioscu, unni sta Ammuttaporte, docu precisu”.
Due 7.65, una 9×21, una calibro 9, una 38, un 13 colpi parabellum, il collaboratore ricorda ogni dettaglio: “Lo Giudice ci resi sti cose a Gaetano, dici, portiti sticose, subito e si purtau nautru pugnu di pistole l’aveva iu salvate o cortile”.
A parlare dell’arsenale dei Cappello è anche il pentito Natale Cavallaro, ex componente della famiglia, che ricorda l’arrivo “di armi, la maggior parte tutti fucili…erano armi che erano state disotterate perchè erano incerottate con carta spessa, con una specie di gomma tutta sigillata. Queste armi le abbiamo portate a casa di mia nonna, perché sotto ci abita la mia famiglia”. Non solo fucili. “C’erano due granate, io che era la prima volta che le vedevo, con la paura di tenerle a casa, a causa di queste bombe, c’erano anche cose dei carabinieri, tipo giubotti, cose dove mettere le pistole”.
Cavallaro era preoccupato perché, da affiliato, aveva il compito di custodire la droga e non voleva che, durante un possibile blitz delle forze dell’ordine, venisse scoperto l’arsenale.
Un altro pentito parla delle armi dei Cappello-Bonaccorsi, è Gaetano Musumeci, uno degli storici elementi di spicco: “Il soggetto che custodiva le armi era il padre di Sebastiano Lo Giudice, Gaetano, che si occupava di custodirle, pulirle e conservarle”. Era una sorta di armiere Gaetano, il boss dei boss. Musumeci ricorda di aver acquistato, per conto del gruppo, “10 mitragliette, 10 pistole calibro 9, 4 pistole 357, una ventina di calibro 7.65 e un paio di fucili a pompa”. “Queste armi -aggiunge il collaboratore- sono state acquistate da me, Lo Giudice e Bonaccorsi da un soggetto del quartiere che ci chiama Salvatore e forse il cognome è Salvo. Di questo soggetto conosco l’abitazione, questi mi diceva che provenivano dalla famiglia dei Ceusi e in particolare da Melo u Ceuso”. Gaetano Lo Giudice custodiva anche “kalashnikov, due 85 colpi, un po’ di tutto va, un arsenale”, conclude il collaboratore.
A svelare ulteriori particolari è il killer pentito dei Cappello, Gaetano D’Aquino che, sempre riferendosi a Gaetano Lo Giudice, confida ai magistrati: “Non si può descrivere, ha un potenziale d’armi di quello bestiale, tutti i tipi di armi, ogni tipo di armi, kalashnikov ne ha tantissimi, armi 9×21, 7.65, 38, qualche bazooka, bombe, lanciamissili, fucili ad altissima precisione che sparano fino a oltre mille metri, a livello di fucili da Marines, che lui acquistava tramite computer. Lui sceglieva qualsiasi tipo di armi nel computer, lo dava al padre e il padre glielo faceva acquistare”. In pratica il giovane boss Sebastiano Lo Giudice faceva con il padre quello che fa ogni ragazzo, non solo alle falde dell’Etna. Sceglieva i suoi “regali” su internet, ma non si trattava di ipad o chitarre elettriche, ma di armi da guerra, acquistate attraverso un canale che gli investigatori stanno cercando di decifrare”.