Il bacio della morte del Pd |e la fine del lombardismo - Live Sicilia

Il bacio della morte del Pd |e la fine del lombardismo

I partiti che solo fino a pochi mesi fa facevano il bello e cattivo tempo nell'era di Raffaele Lombardo, hanno rimediato una sonora batosta alle urne. Una intera stagione politica sembra essere stata archiviata dagli elettori siciliani

L'analisi
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PALERMO – Quante ere geologiche sembrano trascorse dai giorni in cui la politica siciliana si accapigliava sul “bloccanomine”? Che poi, forse, se siete persone normali, di quelle che trascorrono qualche ora coi figli, guardano il calcio e si danno da fare per portare il pane a casa, magari del “bloccanomine” neanche vi ricordate. E avete pure ragione. Eppure, scorrendo i titoli dei giornali e i lanci delle agenzie, in quei giorni d’estate, era di questo che si dibatteva: dell’inedito disegno di legge per sterilizzare le nomine elettorali di Lombardo e compagni, dell’occupazione dei posti di sottogoverno, del senso d’onnipotenza del governatore che aveva spaccato i partiti altrui riducendoli tutti sull’orlo di una crisi di nervi. Sembra incredibile che da allora siano passati sei mesi o poco più. Soprattutto se si guarda alle sorti politiche dei protagonisti di quella stagione. Ossia del blocco che con Lombardo maturò il clamoroso strappo dal centrodestra berlusconiano avviando il controverso flirt con il Partito democratico, che da amorazzo proibito si tramutò in fidanzamento in casa senza mai approdare sull’altare del matrimonio politico.

A scorrere i dati delle Politiche in Sicilia, i numeri registrati da quei leader e quei partiti hanno la musicalità di un bollettino di guerra dal fronte russo. Un massacro elettorale con pochi o nessun superstite. I semi-onnipotenti protagonisti della stagione d’oro del lombardismo di governo escono massacrati dal voto di domenica e lunedì, passati di moda in un tempo paurosamente breve per chi per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo della politica siciliana. Un epilogo che dovrebbe suonare da monito paradigmatico per chi si esercita nella complicata e scivolosa pratica dell’esercizio del potere, a ogni latitudine.

Il bacio della morte con il centrosinistra non sembra essere stato perdonato, insieme forse ad altro, ai grandi sacerdoti del lombardismo. A partire proprio da Lombardo, che faceva e disfaceva con piglio da imperatore, forte delle altrui debolezze politiche, abile e furbissimo nell’insinuarsi tra le spaccature nell’altrui campo, nel sedurre e a volte abbandonare compagni di viaggio meno accorti di lui. Il suo Movimento per l’autonomia, che alle regionali era calato a un comunque dignitoso nove per cento, è precipitato a un modesto 2,16, restando sotto i 50 mila voti, malgrado la discussa discesa in campo in prima persona dell’ex governatore, candidato nonostante i ripetuti proclami di ritorno definitivo alla vita agreste. Nel 2008, la lista del Mpa al Senato aveva raccolto 196 mila voti, tanto per dare l’idea del tracollo. Lombardo se l’è presa con quanti hanno lasciato il suo partito approdando altrove, rivolgendo ad altri accuse che negli anni gli erano piovute addosso dai suoi oppositori. Perché la ruota, in politica, gira. Anche se può richiedere i suoi tempi.

Ancora più drammatico il tonfo di Gianfranco Miccichè, l’altro artefice dello storico strappo, quello che diede vita al Pdl Sicilia. Il suo Grande Sud, dopo l’uscita dal partito di una pletora di colonnelli, attratti dalle sirene (o meglio dai megafoni) di Crocetta, ha messo insieme uno striminzito uno per cento, fermo a 24 mila voti, quelli che fino a qualche anno fa prendeva un solo deputato pidiellino tra i big a Palermo. Prima la rottura, poi il riavvicinamento al Pdl per le amministrative palermitane, poi ancora i pesci in faccia per le regionali con la discesa in campo contro Musumeci e infine il ritorno a casa tra le braccia del Cavaliere per le Politiche: il percorso dell’uomo del 61 a 0 ha spiazzato la sua base, riducendo il partito arancione, almeno al momento, a una condizione di marginalità.

Caporetto anche per i finiani, i più fedeli e irriducibili partner di Raffaele Lombardo, gli unici ad averlo seguito dall’inizio alla fine della sua esperienza di governo. I futuristi all’epoca, così vicina e così lontana, godettero di un trattamento d’onore, mantenendo in eterno due assessorati regionali malgrado il loro esiguo peso parlamentare. Ma la loro presenza al governo non è bastata per finire fuori praticamente da tutto, sotto la soglia di sbarramento al Comune di Palermo, a Sala d’Ercole e ridotti a uno zero e qualcosa a queste Politiche che hanno visto uscire dal Parlamento Gianfranco Fini.

Insomma, gli alti papaveri del lombardismo restano ai margini. E non fanno eccezione i tecnici che si inventarono politici. A partire da Massimo Russo, che ha trovato la porta chiusa in politica, tornando alla magistratura. Fuori dal Palazzo, come tutti gli altri assessori di quei governi lombardiani. Tutti tranne uno, quello che il governatore licenziò, il turbolento Andrea Vecchio, fresco deputato eletto con Monti.

Chi invece fin qui non ha pagato lo scotto di quella stagione, sono i pezzi da novanta del Pd che di Lombardo furono i primi interlocutori. A partire da Beppe Lumia, che rimane come mai sulla breccia e ha ritrovato l’ennesima elezione in Parlamento. O Antonello Cracolici, ridimensionato rispetto alla precedente legislatura, ma ancora battagliero e influente. O Totò Cardinale, che può sorridere per la rielezione della figlia Daniela alla Camera e si dedica all’organizzazione di cene con aspiranti cambiacasacca, regolando la transumanza dei trasformisti verso i lidi crocettiani. Lidi seducenti, complice la scintillante lusinga del potere. La stessa che brillava a Palazzo d’Orleans negli anni di Lombardo.


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