Il terribile Covid che ci ha separato dalle nostre mamme

Il Covid che ci ha separato dalle nostre mamme

Siamo lontani, per colpa di una pandemia che sta facendo strage. Ma anche guardarsi dalla strada al balcone è una festa.
DIARIO DELLA PANDEMIA
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4 min di lettura

Chissà se nel libro di questi tempi così arrabbiati c’è spazio per lo sguardo da un balcone alla strada, tra una madre e un figlio. Da un anno, da quando ha avuto inizio la pandemia, le consuetudini sono state rivoltate come un guanto, mostrando la cucitura al posto del disegno. E così la delizia dello stare insieme si è trasformata nell’arsura del non potere stare insieme, se non per pochi istanti, a distanza, quando si va, attraverso un ascensore che sembra il labirinto con il Minotauro già all’ingresso, in una trama di infidi approdi.

E si esce con lo scudo trasparente calato sulla fronte a mo’ di elmo, con la doppia mascherina e con i guanti da serial killer o da polizia scientifica. Esagerato, dirà qualcuno. Mica tanto, se, dall’altra parte, c’è una madre di quasi ottant’anni, ancora con il volto vispo da ragazzina, esposta alla fragilità del momento. E allora bisogna consumarli in un attimo quegli attimi, con un senso fugace di colpa a cui non fare prendere la parola. Entrare, salutare, mimare un abbraccio a distanza. E poi scappare a rotta di collo, per lo stesso ascensore, perché il nemico è cattivo. Ed è necessario che le chiacchierate più lunghe vengano consumate, con l’ausilio di un telefonino, dalla strada al balcone – come stai? Bene – in un lieto mentirsi, in un nascondersi che non è mai stato tanto sincero.

Le madri dei giornalisti andrebbero premiate con la pensione sociale per quanto furono avventate e sagge, per i posti in banca, per le scorciatoie che rifiutarono, quando capirono che un figlio pazzo voleva fare un bellissimo mestiere da pazzi. E per ricompensa non chiesero altro che vederlo nascere su una pagina, ogni giorno. Le madri, tutte, sono eroiche nella capacità di nascondere il dolore dell’assenza, per trasformarlo in sorriso. Non solo per questo, ma anche per questo, vanno protette. Purtroppo, con la lontananza che ha preso il posto della vicinanza. Il Covid è spietato: basta socchiudergli la porta. Lui entra e non è detto che esca da solo.

Se ce l’avessero raccontato il presente, quando era futuro, un paio di anni fa. Ci saremmo bevuti un paio di birre assembrate, ridacchiando del profeta di sventure raccolte soltanto in certi filmacci. Ed erano rassicuranti proprio perché sembravano inarrivabili. Noi di qua, con la birra, a ridere. Loro di là, sullo schermo, ad affrontare il peggio. Sarà un contrappasso, una rivincita delle immagini sulla carne. Ora loro sono di là, con i programmi di cucina e la birra o il vino non mancano mai. E noi siamo di qua con le nostre mascherine, sbigottiti dall’inimmaginabile.

Tanto per stilare un elenco impreciso per difetto, la mia generazione ha annotato: le Torri Gemelle, le stragi di mafia, le dimissioni di un Papa, l’Italia che non si qualifica ai Mondiali…. E la lista sarebbe lunghissima. E adesso la pandemia che noi cinquantenni, con la mamma affacciata al balcone, tentiamo di schivare, sapendo benissimo che la paura più atroce è per le persone che amiamo, per chi abbiamo incontrato, per chi ci ha cresciuto tra un libro di Italiano e un album delle figurine Panini, quando Paolo Rossi era ancora un bambino come noi. Non per noi stessi. E non ci raccapezziamo più. E non troviamo l’uscita di sicurezza, noi che avevamo difficoltà a capire le istruzioni per montare la sorpresina dell’ovetto Kinder. E scorriamo inebetiti il bollettino di guerra quotidiano, per legittima difesa, senza badarci troppo. Ma se tra quei numeri c’è il nome di qualcuno che condivideva con noi mezzo passo al giorno, lo smarrimento si palesa con l’intera sua pesantezza. E diventa impossibile fingere un pizzico di serenità.

Conosco molti medici. Alcuni li conoscevo già prima. Altri li ho conosciuti nel corso della pandemia, per raccontarla. Non so come cureranno le ferite alla fine della sofferenza, perché la fine arriverà, prima o poi. So che li ho sentiti piangere al telefono, in più di una occasione, se non erano riusciti a salvare, la notte prima, un paziente. E c’era il dubbio, specialmente all’inizio: come rincuorarle queste povere persone, in un reparto Covid, distanti dalla famiglia e dagli amici? Qualcuno si era inventato la pacca sul piede che sporgeva dal lettino. Qualcun altro raccontava che la separazione più acuta era quella con sua madre. Si parlavano dalla strada al balcone. Gli faceva impressione se capitava in corsia una mamma, con i figli da qualche parte, ansiosi di notizie. Si immedesimava nella ferita.

La separazione dei figli grandi dalle mamme: ecco una delle sotto-tragedie del Covid, considerando tragedia primaria il perdersi, senza salutarsi, senza abbracciarsi, senza mandarsi un bacio. Eppure, il diario sentimentale di una catastrofe suggerisce che c’è amore finché c’è respiro e dopo.

Mamma, come tutte le mamme e tutti i figli, facciamoci bastare il balcone, con i suoi fiorellini spelacchiati, e le strada, nell’esilio di un cielo primaverile che precede il ritorno a casa. Tanto io lo so che pure quando giro la macchina e vado via, tu mi segui con lo sguardo, mentre divento un puntino e sparisco. Gli sguardi delle madri si somigliano. Una volta hanno visto il futuro che per gli altri non esisteva. Ora vedono l’amore. L’amore che continua a crescere.

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