CATANIA – Due anni di processo. Due anni di indagini. Due cadaveri mai trovati. Il duplice delitto di Giuseppe Spampinato e Francesco Grasso, uomini vicini al clan Laudani, è stato al centro di un articolato dibattimento che ha visto alla sbarra Rosario Grasso, imprenditore 50enne e titolare dell’agriturismo Akis, luogo dove i due scomparsi sono stati uccisi il pomeriggio del 21 febbraio 2011. Oggi si è chiuso il procedimento di primo grado davanti alla Corte d’Assise di Catania che ha condannato a 29 anni il proprietario del locale di Aci Sant’Antonio. Una vicenda fin da subito articolata e complicata. Ci sono stati tutti gli ingrendienti di un vero e proprio giallo, primo elemento l’assenza dei cadaveri. Nell’aula Famà del Palazzo di Giustizia si sono susseguiti mesi e mesi di dibattimento, decine di testi e non sono mancati i colpi di scena. Ecco accusa e difesa a confronto.
L’ACCUSA, DOPPIA LUPARA BIANCA. Quel 21 febbraio 2011 all’Akis, secondo il pm Pasquale Pacifico, sarebbe stato teso un vero e proprio agguato a Giuseppe Spampinato e Francesco Grasso, un appuntamento con la morte senza scampo. E Rosario Grasso sarebbe stato un attore e non un semplice spettatore. Nella sua requisitoria il sostituto procuratore ha passato in rassegna tutti gli elementi di prova raccolti nella lunga indagine dei Carabinieri che, grazie al luminol dei Ris di Messina, hanno inchiodato il titolare dell’agriturismo soffocato dalle sue stesse bugie.
Ed è sulle tracce di sangue trovate nella scena del crimine grazie all’utilizzo del luminol che si fonda principalmente la tesi dell’accusa. E non solo. Dal sangue è stato prelevato il dna che “era riconducibile – secondo il maggiore Romano dei Ris – con certezza assoluta a una delle vittime, Giuseppe Spampinato”. Una “certezza” – così l’ha definita il pm durante la requisitoria – a cui ha aggiunto le testimonianze dei familiari delle vittime e le analisi dei tabulati telefonici che fanno stabilire con precisione che i due scomparsi sono andati all’Akis quella sera. E d’altro canto anche lo stesso imputato lo aveva detto ai carabinieri: Grasso aveva raccontato che dovevano incassare una tranche del prestito usuraio di 20 mila euro, 4 mila euro circa la rata da consegnare, e inoltre dovevano organizzare un compleanno da festeggiare all’agriturismo. Accade tutto prima delle 19.40 perché dopo il telefono si aggancia ad una cella di Riposto. E proprio a Riposto viene ritrovata la Bmw di Grasso, dove in un bracciolo c’è un secondo telefonino che la vittima utilizzava per parlare con una donna con cui avrebbe avuto una relazione extraconiugale. E su questo elemento ha pressato molto la difesa.
Dopo un anno Rosario Grasso cambia versione e ritratta. Tre persone con il volto scoperto sarebbero entrate all’improvviso e uno dei tre avrebbe prima sparato un colpo di pistola, rumore che la moglie al piano di sopra avrebbe scambiato per la caduta di una pirofila in metallo, e poi con il calcio dell’arma avrebbe ucciso l’altro. Dopo avrebbero messo i cadaveri nel portabagagli di un’Audi scura e sarebbero scappati dal retro, portandosi anche la Bmw. Il suo racconto? Una barzelletta secondo Pasquale Pacifico.
“Non è un omicidio di mafia, ma lo scenario in cui si sviluppa questo duplice delitto è imperniato della mafiosità dei soggetti coinvolti”. Il pm nelle sue conclusioni non tralascia le connivenze e le vicinanze che ogni protagonista di questa vicenda ha nella criminalità organizzata e in particolare con i Laudani. Vittime, persone offese e l’imputato, per sua stessa ammissione. Spampinato e Grasso sarebbero stati attirati in una trappola, secondo la ricostruzione dell’accusa. E il titolare dell’Akis sarebbe stato complice di un piano premeditato all’interno della criminalità locale e si guarda con vivo interesse verso il gruppo della Civita dei Santapaola. Sulla scorta anche delle dichiarazioni del pentito Pippo Laudani che racconta di un tentativo di Grasso di “avere la protezione” dal clan rivale.
LA DIFESA, “UNA QUESTIONE DI DONNE” . L’avvocato Giuseppe Di Mauro, difensore di Rosario Grasso, ha chiesto alla Corte d’Assise la condanna per favoreggiamento. Non ci sarebbe stato secondo il difensore nessun coinvolgimento diretto nell’omicidio, ma solo paura di svelare i nomi di quegli uomini che si sarebbero presentati all’agriturismo di Aci Sant’Antonio quel pomeriggio del 2011 per uccidere Giuseppe Spampinato e Francesco Grasso. “Ti sterminiamo la famiglia se parlì” gli avrebbero urlato i killer prima di sparire con i cadaveri.
La tesi difensiva si basa sull’ipotesi di un omicidio maturato non all’interno della criminalità organizzata, ma per motivi personali: una vendetta per questione di donne, insomma. Quel telefonino – come detto – assume un ruolo chiave nella ricostruzione dell’intera vicenda. A supporto di questo movente l’avvocato nell’arringa ha citato l’intercettazione in carcere di Pippo Grasso detto “Tistazza”, zio di una delle vittime. Durante una conversazione con Filippo, nel 2011, emergerebbe – a detta di Di Mauro – come “Tistazza” attribuisce l’omicidio proprio a una questione di donne. Uno degli scomparsi, infatti, avrebbe avuto una relazione con la moglie, “una donna bionda e appariscente”, di un affiliato detenuto. Un regolamento personale, dunque, non una vendetta mafiosa. Il movente sarebbe stato quindi da ricercare – secondo il difensore – in questa direzione.