Il quartiere è quello che è. Scomposto e maleodorante. Pericoloso, dicono.
Il quartiere è quasi tutto in mano ai cinesi, ai cingalesi, ai mauriziani e alle nigeriane con i loro magnaccia. Poche frasi in siciliano, facce in multicolor. I lupini si possono comprare all’angolo tra via Garibaldi e via Pozzo Canale, costano un euro a sacchetto e l’indiano che li vende, Bhumindra (“mi raccomando, ci vuole l’acca”, raccomanda) è solo il primo avamposto della Pescheria: il mercato del pesce e di un po’ di tutto- imbastardito anch’esso dal melting pot che a Catania è naturale, anzi banale, come i boati del vulcano o il pizzo dei mafiosi o i pupi siciliani venduti in ogni dove- è solo un paio d’isolati più in là, rispetto al quartiere. Il mercato è sempre pieno di turisti, con le macchine fotografiche a tracolla e i marsupi sotto i giubbotti – perché così ordinano le lonely planet, e loro non fanno che ubbidire. Lo trovano –anzi- folcloristico.
Il quartiere si chiama “Fortino”; ha una storia lunga, schiacciata dal presente.
In piazza Mazzini, costruita secondo i criteri dell’urbanistica spagnola, il grand hotel dei disperati apre i cartoni la sera tardi e alle undici del mattino li ha appena chiusi. Salvatore, edicolante, ha l’orgoglio dei siciliani stampato sulla faccia -“scriva pure il mio nome” sorride “io non ho paura”- e da sei anni conta ogni sera e ogni mattina una trentina fra clochard e punkabbestia che dormono all’aperto. Cucinano sotto i portici, accendono falò per scaldarsi, insultano i turisti e usano i muri come wc. I vigili urbani li ignorano, e sono state ignorate pure le mille denunce che il giovane ha presentato contro di loro, spaziando dal vagabondaggio all’accampamento abusivo, fino agli atti osceni in luogo pubblico. Attraversare la piazza è proibitivo, nel quartiere vige il coprifuoco. Salvatore la mattina indossa i guanti di lattice e ripulisce il suo angolo, “così almeno i clienti possono avvicinarsi e comprare i giornali”.
Piazza Mazzini è il centro del quadrilatero della cultura, compreso tra il Teatro romano, la via dei Crociferi, Piazza Dante e piazza Duomo; è l’itinerario che tutti i turisti percorrono ordinatamente, dietro le guide con gli ombrellini.
Via Sant’Anna è proprio lì dietro. La casa al numero 8 è di antica nobiltà, è annerita dallo smog e il cortile è un parcheggio.
Giovanni Verga è nato e morto qui, e il 2012 è l’anno del novantesimo della sua scomparsa. La città non ha un euro nemmeno per ricordarlo. L’androne è buio pesto, la scala vorrebbe mantenere un certo decoro sfoggiando un tappeto lercio.
Al primo piano c’è una porta sbarrata. Al di là, c’è l’intera biblioteca di Federico De Roberto, più i libri manoscritti di Luigi Capuana. Da dieci anni non vi si può accedere, se non in occasioni eccezionali; per mancanza di fondi e di personale. Strano, se consideriamo che tutto l’immobile è proprietà della Regione Siciliana; la stessa Regione che conta 1.600 custodi di musei.
Al secondo piano ci sono gli appartamenti di Giovanni Verga. Di famiglia ricchissima, con grandi possedimenti in provincia, lo scrittore trovava qui il suo rifugio. La casa è assediata dall’umidità e dalla polvere. I duemilaseicento volumi di sua proprietà, molti dei quali cifrati in oro con le iniziali, sono sotto chiave, i custodi inflessibili. La casa è visitata soprattutto da turisti giapponesi e scolaresche. Il registro delle firme parla chiaro: i ragazzi arrivano preparati, scrivono citazione colte: “Giovanni Verga noi ti lovviamo”, con un cuoricino accanto. Affacciandosi dal balcone di questa casa, Giovanni Verga poteva vedere il convento di clausura delle Benedettine, sulla via dei Crociferi: proprio quello dove la Maria della “Storia di una capinera” venne reclusa e portata a follia dall’amore per Nino.
Via dei Crociferi è una delle strade più belle d’Europa, dove il barocco è come uno schiaffo in piena faccia. E’ tutto troppo, esagerato: troppo nero, troppo ricco, ostentato. Qui batte il cuore della movida catanese, e qui c’è palazzo Gravina-Cruijllas. Vi è nato Vincenzo Bellini. Il nome richiama la dominazione spagnola, e l’edificio sarebbe una meraviglia. E’ invece un cantiere da più di due anni, e i lavori sono fermi; il degrado è ormai naturale, i turisti sono spaesati. Al primo piano hanno messo in salvo almeno i pianoforti. Di tutto il palazzo, si possono visitare solo tre stanze. D’altronde, è del Comune di Catania; termine che, in città, quasi equivale a dire “debito”. Non è una novità: il sindaco, l’ennese Raffaele Stancanelli –perché nella città più all’avanguardia di Sicilia, quella delle università prestigiose, dell’intellighenzia e dello standard intellettuale di primordine, gli ultimi sindaci sono stati tutti d’importazione – nel giugno 2008 oltre al debito lasciato da Scapagnini ha ereditato una città allo sbando, alla quale pure l’Enel aveva tagliato la luce. Dal canto suo, lui alla ribalta nazionale c’è finito per l’ormai famoso servizio di Report, dal titolo “I Vicerè”, dove ammetteva candidamente di aver evitato il fallimento del Comune chiedendo e ottenendo dal CIPE –con il nulla osta del premier- centoquaranta milioni di fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) per opere cantierabili, salvo poi stornarli con un decreto legge all’estinzione dei debiti. Il primo, appunto, con l’Enel. Quantomeno adesso, almeno nelle strade centrali, le luci sono accese. E pure in barba ai “cieli bui” di Monti.
Dalla casa natale di Bellini, al primo piano, tempo fa è venuto giù un balcone: un operaio è volato in terra, è rimasto ferito.
“Arrivò l’ambulanza” raccontano nel bar sotto i ponteggi “ma non se n’è saputo più niente. Mi sa che ce lo siamo sognato”.
Forse perché nella città di Verga il verismo è un’opinione, e da sempre Catania è icona e simbolo dell’eterna dissonanza tra realtà e rappresentazione.
Salendo dalla via dei Crociferi, non molto verso nord, verso quella che è la collina che domina il centro, si arriva in Piazza Dante. Qui, i luoghi sono quelli di De Roberto, e il Monastero dei Benedettini – il più grande complesso monastico d’Europa dopo quello di Mafra- che ospita i ventincinquemila studenti dei rami umanistici dell’Università di Catania, è, per tornare ai Vicerè, il convento dove crebbe Consalvo Uzeda. E’ anche il luogo dove il primo luglio del 2010 una studentessa della facoltà di Lettere, attraversando la piazza, fu colpita al collo da un proiettile vagante.
Si urlò subito alla città sciascianamente irredimibile, vittima della mafia, non pensando invece che siamo sempre e comunque nella terra del Verga. Cavalleria rusticana, qui, non è certo un modo di dire. Infatti, nemmeno otto ore dopo la fiaccolata antimafia, prontamente organizzata dalla “società civile” si scoprì che il feritore, un incensurato di 56 anni, aveva come reale obiettivo un benzinaio, colpevole di fargli ogni mattina il segno delle “corna”.
Tutto qui. La ragazza, Laura Salafia, è tuttora paralizzata dal collo in giù, e come se non bastasse ha dovuto subire anche l’onta dell’inspiegabile decisione del Comune di Catania e della stessa Università di non costituirsi parte civile nel processo al suo feritore.
Ma in questo sbando di una città che fu grande, ci sono tracce di futuro e di integrazione. C’è una seconda generazione di immigrati che si iscrive all’Università, c’è una cultura popolare con una sua dinamica, c’è una capacità aggregante; e c’è tolleranza. A Catania non c’è razzismo.
Proprio nel quartiere del Monastero, detto Antico Corso, il maitre a penser, il guru, è uno dei tre fratelli Brundo, del chiosco di bibite omonimo. I tre sono tutti gay, e in un Paese sessista, nel quale l’immaginario collettivo riserverebbe al Sud il primato dell’omofobia, Catania è invece la città più gay friendly d’Italia. Qui, sull’impareggiabile Carlo Giovanardi –che si è intestato un’assurda battaglia contro i manifesti Ikea che rappresentano due uomini che si tengono per mano sotto la scritta “famiglia” e che guarda caso solo a Catania sono stati affissi- i catanesi ci hanno riso per giorni.
Perché poi, comunque, a ricordarci che la vita trasfigura la morte, ci pensa la via davanti alla casa verghiana, che è quella delle bare. Via Castello Ursino, dove ha sede l’anagrafe, rappresenta l’offerta che va incontro alla domanda, con una sfilza di onoranze funebri a contendersi la sfortuna.
A Verga l’atmosfera sarebbe piaciuta. Il più antiletterario degli scrittori, come lo definì Luigi Pirandello nel “Discorso di Catania” del 1920, ha spiegato al mondo che la letteratura è fatta di terra, di sudore, di morte e di fatica.
Soprattutto, di sconfitte. Qui ce ne intendiamo.
Nella bella fontana di Piazza Verga, oggi senz’acqua perché in città mancano i soldi anche per quella, la Provvidenza del 1863 è in balìa della tempesta. E’ tale e quale la Catania del 2012.